A parte le lamentele per il cibo, stoicamente sopportate dall'occupatissimo steward, il viaggio si era svolto senza incidenti. A cento chilometri dalle fondamenta erano entrati dolcemente in funzione i freni, e la velocità era diminuita. Poi fu abbassata fino a cinquanta chilometri orari; perché, come aveva commentato uno degli assistenti di Sessui: — Non sarebbe un po' imbarazzante se volassimo sui binari?
L'autista (che insisteva a farsi chiamare pilota) ribatté che la cosa era impossibile, dal momento che le scanalature di guida seguite dalla capsula terminavano diversi metri prima della base; inoltre esisteva un complesso sistema di respingenti, nel caso che tutti e quattro i sistemi frenanti, indipendenti l'uno dall'altro, non funzionassero. E tutti ammisero che la battuta dell'assistente, oltre a essere perfettamente ridicola, era di pessimo gusto.
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La meteora
Il grande lago artificiale, noto da duemila anni col nome di Mare di Paravana, era calmo e tranquillo sotto lo sguardo di pietra del suo costruttore. Pochi ormai visitavano la statua solitaria del padre di Kalidas, ma la sua opera, se non la fama, era sopravvissuta a quella del figlio; e aveva reso al paese servigi infinitamente superiori, donando cibo e acqua a cento generazioni di uomini. E a molte generazioni di uccelli, cervi, bufali, scimmie, e ai loro predatori, come il leopardo lustro e ben paciuto che in quel momento beveva sulla riva del lago. Quegli enormi felini stavano diventando troppo comuni e spesso erano fonte di guai, adesso che non avevano più niente da temere da parte dei cacciatori. Ma non attaccavano mai l'uomo, a meno che non venissero molestati.
Sicuro di sé, il leopardo beveva tranquillamente l'acqua, mentre le ombre si addensavano attorno al lago e l'oscurità avanzava da est. D'improvviso rizzò le orecchie e si mise all'erta; ma i semplici sensi umani non avrebbero notato nessun cambiamento sulla terra, in acqua o in cielo. La sera era tranquilla come sempre.
E poi, direttamente dallo zenit, giunse un fischio sommesso che divenne rapidamente un colossale ruggito, con sottotoni acuti, laceranti, del tutto diverso dal rumore prodotto da una nave spaziale in rientro. Su nel cielo qualcosa di metallico splendeva agli ultimi raggi del sole, diventava sempre più grande e si lasciava dietro una scia di fumo. Mentre cresceva di dimensioni, si disintegrò: i pezzi volarono in ogni direzione, alcuni s'incendiarono. Per pochi secondi un occhio acuto come quello del leopardo avrebbe potuto distinguere un oggetto quasi cilindrico, che esplose in una miriade di frammenti. Ma il leopardo non attese la catastrofe finale: era già scomparso nella giungla.
Il Mare di Paravana scoppiò in una tempesta improvvisa. Un geyser di fango e schiuma si alzò nell'aria a un'altezza di cento metri: una fontana che superava abbondantemente quelle di Yakkagala, che anzi era quasi alta come la Montagna stessa. Rimase sospesa un attimo in cielo, in un'inutile sfida alla gravità, poi ricadde nel lago sconvolto.
Il cielo era già pieno di uccelli acquatici levatisi in un volo caotico. Altrettanto numerosi, mischiati agli uccelli, come pterodattili coriacei sopravvissuti fino all'epoca moderna, c'erano gli enormi pipistrelli che normalmente si alzavano in cielo solo dopo il tramonto. Ora, ugualmente terrorizzati, uccelli e pipistrelli volavano assieme.
Gli ultimi echi dell'impatto si spensero nella giungla circostante; il silenzio ricoprì veloce il lago. Ma passarono lunghi minuti prima che la sua superficie tornasse liscia come uno specchio, e che le onde smettessero di correre avanti e indietro sotto gli occhi di Paravana il Grande.
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Morte in orbita
Si dice che ogni costruzione di grandi dimensioni reclami una vita: sui pilastri del Ponte di Gibilterra erano scolpiti quattordici nomi. Ma, grazie a una campagna per la sicurezza quasi frenetica, gli incidenti con la Torre erano stati pochissimi. Anzi, era passato un anno intero senza morti.
E c'era stato un anno con quattro vittime, due delle quali avevano fatto una fine particolarmente raccapricciante. Un supervisore all'assemblaggio di stazioni spaziali, abituato a lavorare a gravità zero, si era scordato che pur trovandosi nello spazio non era in orbita, e l'esperienza di un'intera vita lo aveva tradito. Era precipitato per più di quindicimila chilometri, ed entrando nell'atmosfera era bruciato come una meteora. Sfortunatamente, la radio della sua tuta era rimasta accesa in quegli ultimi minuti.
Quello fu un brutto anno per la Torre. La seconda tragedia si era protratta anche più a lungo, e sotto gli occhi di tutti. Un'esperta che lavorava al contrappeso, molto oltre l'orbita sincrona, non aveva allacciato bene la sua cintura di sicurezza, ed era stata scagliata nello spazio come una pietra lanciata da una fionda. A quella quota non correva il rischio di cadere sulla Terra o di essere scaraventata in traiettoria d'allontanamento; ma disgraziatamente la sua tuta aveva una riserva d'aria di meno di due ore. Con un preavviso tanto breve era impossibile salvarla; e, nonostante le proteste generali, non si tentò niente. La vittima cooperò nobilmente. Trasmise i suoi messaggi d'addio, e poi, con trenta minuti di ossigeno ancora disponibili, aprì la tuta al vuoto. Il corpo venne recuperato pochi giorni dopo, quando le inesorabili leggi della meccanica celeste lo riportarono al perigeo della sua lunga ellisse.
Quelle tragedie rivivevano nel cervello di Morgan mentre scendeva, con l'ascensore ad alta velocità, in sala operativa, seguito da un Warren Kingsley tetro e dal quasi dimenticato Dev. Ma "quella" catastrofe era di un tipo del tutto diverso; c'era di mezzo un'esplosione alla base della Torre, o molto vicino. Era ovvio che il traslatore era precipitato sulla Terra, ancor prima che giungesse notizia dell'impatto di una "gigantesca meteora" nella zona centrale di Taprobane.
Inutile fare ipotesi prima di conoscere altri fatti; e in quel caso, visto che probabilmente tutte le prove erano andate distrutte, forse i fatti non si sarebbero mai conosciuti. Morgan sapeva che raramente gli incidenti nello spazio avevano una causa sola; in genere erano il risultato di una catena di avvenimenti, spesso del tutto innocui in se stessi. Tutte le misure dei tecnici addetti alla sicurezza non potevano garantire un successo assoluto, e a volte erano proprio le loro precauzioni, terribilmente complesse, a contribuire al disastro. L'ingegnere non si vergognava di ammettere che in quel momento la sicurezza del suo progetto lo preoccupava molto più dell'eventuale perdita di vite umane. Per i morti non si poteva fare niente, se non approntare tutto in modo che l'incidente non dovesse mai più ripetersi. Ma l'idea che la Torre, quasi completata, potesse essere in pericolo era insopportabile.
L'ascensore si fermò e lui entrò in sala operativa, giusto in tempo per la seconda sorpresa.
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A prova d'errore
A cinque chilometri dal punto d'arrivo, l'autista-pilota Rupert Chang aveva ridotto di nuovo la velocità. Ora, per la prima volta, la facciata della Torre non appariva più, agli occhi dei passeggeri, come una superficie indistinta che si protendeva all'infinito in entrambe le direzioni. Sì, verso l'alto le scanalature gemelle lungo cui stavano scendendo correvano all'infinito, o almeno per venticinquemila chilometri, il che, rapportato alla scala umana, era più o meno lo stesso. Ma verso il basso se ne vedeva già la fine. La base tronca della Torre si stagliava chiaramente sullo sfondo verde di Taprobane, che avrebbe raggiunto e a cui si sarebbe unita in poco più d'un anno.