Sul pannello di controllo lampeggiarono di nuovo i segnali di ALLARME. Chang li studiò con una smorfia annoiata, poi schiacciò un pulsante. Ebbero un guizzo luminoso e svanirono.
La prima volta che era successo, duecento chilometri più in alto, si era messo in comunicazione col controllo della Stazione di Mezzo. Un veloce esame di tutti gli impianti non aveva rivelato niente d'irregolare; e comunque, se i segnali d'allarme erano veri, i passeggeri erano già morti. Ormai avevano oltrepassato ogni limite di tolleranza.
Ovviamente si trattava di un guasto ai circuiti d'allarme, e la spiegazione del professor Sessui venne accolta da tutti con sollievo. Il veicolo non si trovava più nell'ambiente di vuoto assoluto per il quale era stato progettato; i disturbi ionosferici in cui era entrato facevano scattare i sensibili rivelatori del sistema d'allarme.
— Qualcuno doveva pensarci — aveva brontolato Chang. Ma restava meno di un'ora di viaggio, per cui non si preoccupava sul serio. Avrebbe condotto continui controlli manuali dei parametri critici. La Stazione di Mezzo si dichiarò d'accordo, e in ogni caso non esistevano alternative.
Forse era lo stato delle batterie la cosa che lo preoccupava di più. Il punto di ricarica più vicino era a duemila chilometri sopra di loro, e se non riuscivano a raggiungerlo si sarebbero trovati nei guai. Ma Chang era fiducioso: durante la fase di frenaggio i motori della capsula avevano funzionato come dinamo, e il novanta per cento dell'energia gravitazionale del veicolo era stata ritrasmessa alle batterie. Adesso che le batterie erano perfettamente cariche, le centinaia di kilowatt in più che continuavano a essere generate dovevano essere scaricate nello spazio attraverso le grandi alette di raffreddamento sul retro. Quelle alette, gli avevano fatto spesso notare i colleghi, davano al suo veicolo bizzarro l'aspetto di un'antica bomba aerea. Adesso, giunti alla fine del frenaggio, dovevano essere di un rosso acceso. Chang si sarebbe preoccupato moltissimo se avesse saputo che le alette erano ancora fredde. Perché l'energia non si può distruggere; deve andare "da qualche parte". E molto spesso va dalla parte sbagliata.
Quando si accese per la terza volta il segnale di INCENDIO-CABINA BATTERIE, Chang non esitò a spegnerlo. Sapeva che un vero incendio avrebbe messo in azione gli estintori; anzi, una delle preoccupazioni maggiori era che si mettessero a funzionare senza necessità. Adesso il pannello registrava diverse anomalie, specialmente nei circuiti di carica delle batterie. Appena finiva il viaggio e la capsula si metteva a riposo, Chang sarebbe salito in sala motori per un'antiquata, ma sempre utile, ispezione coi propri occhi.
Il suo naso fu il primo ad avvertirlo, quando mancava appena un chilometro all'arrivo. Mentre fissava incredulo il sottile filo di fumo che usciva dal pannello di controllo, la parte freddamente analitica del suo cervello gli disse: "Che coincidenza fortunata che sia successo solo alla fine del viaggio!".
Poi si ricordò di tutta l'energia prodotta durante l'ultimo frenaggio, e si fece un'idea abbastanza esatta della successione di eventi. Doveva essere successo che i circuiti di protezione non avevano funzionato, e le batterie si erano sovraccaricate. I sistemi a prova d'errore, uno dopo l'altro, li avevano traditi; aiutata dalla tempesta ionosferica, la perversità allo stato puro degli oggetti inanimati aveva colpito ancora una volta.
Chang premette il pulsante che azionava gli estintori della cabina batterie. Almeno quelli funzionavano: sentiva il tonfo smorzato degli spruzzi d'azoto dall'altro lato della paratia. Dieci secondi dopo schiacciò il comando di SCARICO NEL VUOTO, che avrebbe scagliato nello spazio l'ozono e, sperava, buona parte del calore assorbito dall'incendio. Anche quel comando funzionava. Era la prima volta che Chang era sollevato nell'udire l'inconfondibile sibilo dell'atmosfera che usciva da un veicolo spaziale; e sperava che fosse anche l'ultima.
Non osò affidarsi alle operazioni di frenaggio automatico, quando finalmente il veicolo raggiunse il punto d'arrivo. Per fortuna lo avevano istruito alla perfezione e riconobbe tutti i segnali visivi, per cui riuscì a fermarsi a pochi centimetri dal dispositivo d'agganciamento. Le due camere di equilibrio vennero collegate a velocità frenetica, e nel tubo di connessione vennero lanciate le provviste e gli equipaggiamenti…
…e vi venne lanciato anche il professor Sessui, grazie agli sforzi combinati del pilota, dell'assistente tecnico e dello steward, quando tentò di tornare indietro a salvare i suoi preziosi strumenti. I portelli della camera di equilibrio si richiusero pochi secondi prima che la paratia della sala motori della capsula cedesse.
Dopo di che, i superstiti non potevano fare altro che attendere in quella stanza nuda di quindici metri quadrati, non dotata nemmeno delle attrezzature di una normale cella di prigione, e sperare che il fuoco si spegnesse. Forse, per la tranquillità dei passeggeri, era bene che solo Chang e l'assistente tecnico fossero in grado di valutare una statistica d'importanza vitale: le batterie a piena carica contenevano la stessa energia di una grande bomba chimica, che in quel momento ticchettava all'estremità inferiore della Torre.
Dieci minuti dopo la frettolosa evacuazione, la bomba scoppiò. Ci fu un'esplosione in sordina, che fece vibrare solo leggermente la Torre, seguita dal rumore del metallo che si lacerava. Quei suoni non erano troppo impressionanti, ma raggelarono i cuori delle persone che li udirono: l'unico mezzo di trasporto di cui disponevano stava andando in pezzi, e loro si trovavano prigionieri a venticinquemila chilometri dalla salvezza. Ci fu un'altra esplosione, più lunga, poi silenzio. Immaginarono che il veicolo fosse precipitato già dalla Torre. Ancora scossi, cominciarono tutti a controllare di quali risorse disponessero; e, poco per volta, cominciarono a capire che la loro miracolosa fuga poteva essere assolutamente inutile.
44
Grotta nel cielo
Nel cuore della montagna, fra gli strumenti di rilevazione e comunicazione del centro operativo terrestre, Morgan e il suo staff di tecnici erano radunati attorno all'ologramma della sezione inferiore della Torre, in scala uno a dieci. Era perfetto in ogni dettaglio, persino nei quattro sottilissimi nastri di guida che si stendevano lungo ogni facciata. Svanivano nel nulla appena sopra il pavimento, ed era difficile credere che, anche su quella scala minuscola, dovevano allungarsi ancora di seicento chilometri, sino a forare la crosta della superficie terrestre.
— Dacci la visuale in sezione — disse Morgan — e porta le fondamenta a livello d'occhio.
La Torre perse la sua apparente solidità e divenne un fantasma luminoso: una scatola quadrata, lunga, dalle pareti sottili, vuota, a parte i cavi a superconduttività dell'alimentazione elettrica. La parte inferiore ("fondamenta" era un nome più che adatto, anche se sorgeva cento volte più in alto dell'altezza della Montagna) ora formava un'unica stanza quadrata di quindici metri per lato.
— Punti d'ingresso? — chiese Morgan.
Due parti dell'immagine si accesero d'un colore più vivo. Chiaramente stagliati sulla facciata nord e sud, tra le scanalature di guida, si trovavano i portelli esterni delle due coppie di camere di equilibrio, separate fra loro da tutta la distanza possibile, secondo i canoni di sicurezza comuni a ogni costruzione spaziale.
— Sono entrati dal portello sud, ovviamente — spiegò l'ufficiale di servizio. — Non sappiamo se l'esplosione lo abbia danneggiato.
"Comunque ci sono altri tre punti d'accesso" pensò Morgan, ed erano i due più in basso che gli interessavano. Si era trattato di un ripensamento, aggiunto al progetto originario già in fase di lavori avanzati. Anzi, l'intera base era un ripensamento: all'inizio non si giudicava indispensabile costruire un rifugio lì, nella sezione della Torre che avrebbe finito coll'entrare a far parte del Capolinea Terrestre.