— Avvicinami la parte inferiore — ordinò Morgan.
La Torre si mosse in un grande arco di luce e si fermò a mezz'aria, con l'estremità inferiore rivolta verso Morgan. Adesso l'ingegnere vedeva tutti i particolari di quel pavimento di venti metri quadrati; o forse era un soffitto, considerandolo dal punto di vista di chi stava costruendo in orbita.
Vicino agli orli nord e sud si trovavano i portelli che immettevano nelle due camere d'equilibrio indipendenti e che permettevano di entrarvi dal basso. L'unico problema era arrivarci, visto che si trovavano sospesi in cielo a seicento chilometri.
— Sistemi di sopravvivenza?
Gli sportelli vennero riassorbiti nella struttura. L'ologramma mise in rilievo un armadietto al centro della stanza.
— È questo il problema, dottore — rispose cupamente l'ufficiale di servizio. — C'è solo l'impianto per mantenere costante la pressione. Niente purificatori, e ovviamente niente fonti d'energia. Adesso che hanno perso la capsula non vedo come possano sopravvivere alla notte. La temperatura sta già scendendo. È a dieci gradi fin dal tramonto.
A Morgan parve che il gelo dello spazio gli avesse invaso l'anima. L'euforia di scoprire che i passeggeri del veicolo esploso erano ancora vivi svanì in fretta. Se anche le fondamenta avessero contenuto ossigeno a sufficienza per diversi giorni, non sarebbe servito a niente se loro congelavano prima dell'alba.
— Vorrei parlare col professor Sessui.
— Non possiamo chiamarlo direttamente. Il telefono d'emergenza delle fondamenta passa solo attraverso la Stazione di Mezzo. Comunque non c'è problema.
Il che non era del tutto vero. Quando fu stabilita la linea, si presentò a rispondere l'autista-pilota Chang.
— Chiedo scusa — disse. — Il professore è occupato.
Dopo un attimo di silenzio incredulo, Morgan rispose, facendo una pausa tra ogni parola e sottolineando il proprio nome con enfasi: — Ditegli che il dottor Vannevar Morgan vuole parlargli.
— Certo, dottore, ma non farà la minima differenza. Sta lavorando su uno strumento coi suoi assistenti. È l'unica cosa che sono riusciti a salvare, una specie di spettrometro. Lo stanno puntando attraverso uno dei finestrini d'osservazione…
Morgan si controllò a stento. Stava per ribattere: "Sono matti?" ma Chang lo prevenne.
— Voi non conoscete il prof… Io ho passato l'ultima settimana con lui. È un po'… be', immagino voi direste che è fissato. Ci siamo dovuti mettere in tre per impedirgli di tornare sulla capsula a riprendersi i suoi strumenti. E mi ha appena detto che se dobbiamo morire comunque, vuole essere maledettamente certo che almeno "uno" dei suoi apparecchi funzioni a dovere.
La voce di Chang gli lasciava capire che, nonostante l'apparente irritazione, il pilota provava un'ammirazione profonda per quel passeggero famoso e difficile. E, a dire il vero, la logica era dalla parte del professore. Era più che sensato salvare il salvabile, dopo tutti gli anni di sforzi che gli era costata quella spedizione sfortunata.
— Molto bene — rispose lentamente Morgan, accettando l'inevitabile. — Visto che non posso procurarmi un appuntamento col professore, vorrei il vostro riepilogo della situazione. Finora ho sentito solo racconti di seconda mano.
Gli venne in mente che, in ogni caso, Chang gli sarebbe stato probabilmente più utile del professore. Anche se l'insistenza dell'autista-pilota sulla seconda metà del proprio titolo causava spesso l'ilarità dei vari piloti spaziali, Chang era un tecnico capacissimo, con un'ottima conoscenza della meccanica e dell'elettricità.
— Non c'è molto da dire. È successo tutto così in fretta che non abbiamo avuto il tempo di salvare niente, a parte quel maledetto spettrometro. Francamente, non avrei mai creduto che ce l'avremmo fatta. Abbiamo i vestiti che indossiamo, ed è più o meno tutto. Una delle studentesse è riuscita a portarsi qui la sua borsa da viaggio. Immaginate un po': conteneva la prima stesura della sua tesi, scritta su "carta", buon Dio! E nemmeno su carta infiammabile, nonostante i regolamenti. Se potessimo sprecare ossigeno, la bruceremmo per scaldarci un po'.
Ascoltando quella voce che giungeva dallo spazio, guardando l'ologramma trasparente (eppure sembrava così solido) della Torre, Morgan sperimentò un'illusione molto curiosa. Immaginò che piccoli esseri umani, in scala uno a dieci, si muovessero nella parte inferiore della costruzione; bastava tendere la mano e portarli in salvo…
— Dopo il freddo, l'altro grande problema è l'aria. Non so quanto ci vorrà prima che l'anidride carbonica ci faccia fuori; forse qualcuno può eseguire i calcoli. Ma qualunque sia la risposta, temo che sarà sempre troppo ottimistica. — La voce di Chang si abbassò di parecchi decibel. L'autista-pilota prese a parlare in un tono quasi da cospiratore, evidentemente per non farsi sentire dagli altri. — Il prof e i suoi studenti non lo sanno, ma il portello sud è rimasto danneggiato dall'esplosione. C'è una perdita. Si sente un sibilo continuo alle guarnizioni. Non saprei stabilirne l'entità. — La voce di Chang tornò a livelli normali. — Ecco, questa è la situazione. Restiamo in attesa di vostre notizie.
"E che diavolo possiamo dirvi" pensò Morgan "a parte un addio?"
Il controllo d'una crisi era una dote che Morgan ammirava ma non invidiava. Adesso la situazione era passata sotto il controllo di Janos Bartok, l'ufficiale addetto alla sicurezza della Torre su alla Stazione di Mezzo. Le persone rinchiuse dentro la Montagna, venticinquemila chilometri più in basso (e solo a seicento chilometri dalla scena dell'incidente), non potevano fare altro che ascoltare i rapporti sulla situazione, offrire consigli che speravano utili, e soddisfare per quanto era possibile la curiosità dei giornalisti.
Inutile dire che Maxine Duval si era fatta viva pochi minuti dopo il disastro, e come al solito le sue domande erano molto pertinenti.
— Dalla Stazione di Mezzo non posso raggiungerli in tempo?
Morgan esitò. Senza dubbio, la risposta a quella domanda era "no". Eppure non era saggio, ed estremamente crudele, abbandonare ogni speranza così presto. E si era già verificato un colpo di fortuna…
— Non voglio alimentare false speranze, ma forse non avremo bisogno della Stazione di Mezzo. C'è un gruppo di persone che lavorano alla Stazione Dieci C, cioè alla Stazione situata a diecimila chilometri d'altezza, molto più vicina alle fondamenta. Possono arrivarci in venti ore.
— Allora perché non sono partiti?
— Il nostro ufficiale per la sicurezza, Bartok, deciderà al più presto; ma potrebbe essere uno sforzo inutile. Riteniamo che abbiano aria solo per metà del tempo previsto. E il problema della temperatura è ancora più serio.
— Che significa?
— Lassù è notte, e non hanno mezzi di riscaldamento. Non divulgare la notizia, Maxine, ma forse assisteremo a una gara tra il gelo e l'asfissia.
Ci furono diversi secondi di pausa. Poi Maxine Duval, su un tono di diffidenza insolita, disse: — Forse faccio la figura della stupida, ma credo che le stazioni meteorologiche coi loro laser infrarossi…
— Grazie, Maxine. Sono "io" lo stupido. Attendi un attimo che parlo con la Stazione di Mezzo…
Bartok rispose a Morgan con molta cortesia, ma il suo tono secco chiarì oltre ogni dubbio l'opinione che aveva dei dilettanti impiccioni.
— Scusatemi di avervi disturbato — mormorò Morgan, e si rimise in comunicazione con Maxine. — A volte gli esperti conoscono il proprio lavoro — le disse con legittimo orgoglio. — Il nostro uomo lo conosce. Ha chiamato il Controllo Monsoni dieci minuti fa. Stanno già calibrando la potenza del laser: non vogliono che sia troppo forte, se no arrostiscono tutti.
— Allora avevo ragione — notò dolcemente Maxine. — Che ti succede? Avresti dovuto pensarci tu, Van. Che altro hai dimenticato?