"Non devo sfidare la sorte" si disse Morgan. Ma non poté resistere alla tentazione di dare una occhiata dietro l'angolo, aggrappandosi alla parte di ringhiera che ancora restava.
Sui binari c'erano parecchi detriti, e l'esplosione aveva scolorito la superficie della Torre. Ma, da quanto riusciva a vedere, anche lì sarebbero bastati pochi uomini col cannello da taglio, e il lavoro d'un paio d'ore, per aggiustare tutto. Trasmise un'accurata descrizione dei danni a Chang, che si dimostrò sollevato e incitò Morgan a rientrare nella Torre il più in fretta possibile. — Non preoccupatevi — disse Morgan. — Mi restano ancora dieci minuti e devo percorrere solo trenta metri. Ormai potrei farcela anche solo con l'aria che ho nei polmoni.
Ma non aveva intenzione di provare l'esattezza della teoria. Quella notte era già stata abbastanza movimentata. Più che abbastanza, a sentire CORA. D'ora in poi avrebbe sempre obbedito ai suoi ordini.
Tornato davanti al portello aperto, si fermò a fianco della ringhiera per qualche momento, incantato dalla fontana di luce che saliva dalla cima di Sri Kanda, tanto più in basso. L'ombra prodotta dalla luce, immensamente oblunga, si proiettava sulla Torre e saliva in verticale verso le stelle. Quell'ombra doveva proseguire per migliaia di chilometri; Morgan pensò che forse arrivava fino alla capsula che stava scendendo dalla Dieci C. Se agitava le braccia, forse gli uomini a bordo avrebbero visto i suoi segnali; forse poteva parlare con loro nell'alfabeto Morse.
Quell'ironica fantasia gli ispirò un pensiero molto più serio. Era meglio aspettare lì con gli altri, ed evitare il rischio del viaggio di ritorno alla Terra sul Ragno? Ma il viaggio fino alla Stazione di Mezzo, dove avrebbe potuto affidarsi alle cure dei medici, richiedeva una settimana. Non era un'alternativa intelligente, visto che in meno di tre ore poteva essere di ritorno a Sri Kanda.
Era tempo di rientrare. L'ossigeno era quasi finito, e non c'era nient'altro da vedere. Ironia terribile, considerata la visuale spettacolare che in condizioni normali si sarebbe goduta da lì, fosse giorno o notte. Però in quel momento il pianeta che aveva sotto e il cielo che aveva sopra erano nascosti dal fascio di luce accecante di Sri Kanda. Morgan fluttuava in un esile universo di luce, circondato su ogni lato dall'oscurità più totale. Era quasi impossibile credere di trovarsi nello spazio, se non altro perché avvertiva il proprio peso. Si sentiva sicuro come se fosse stato sulla cima della montagna, e non seicento chilometri più in alto. Quello era un pensiero da assaporare e da riportare sulla Terra.
Diede un colpetto alla superficie liscia, rigida della Torre, che a paragone con lui era più enorme di quanto non lo fosse un elefante rispetto a un'ameba. Però nessuna ameba poteva immaginare un elefante, e tanto meno crearlo.
— Ci vediamo sulla Terra fra un anno — mormorò Morgan, e si chiuse lentamente alle spalle il portello.
57
L'ultima alba
Morgan restò alle fondamenta solo cinque minuti. Non era il momento di convenevoli sociali, e non voleva consumare il prezioso ossigeno che aveva portato sin lì fra tante difficoltà. Strinse la mano a tutti e tornò sul Ragno.
Era bello respirare di nuovo senza maschera, e ancora più bello sapere che la sua missione aveva ottenuto successo completo, e che in meno di tre ore sarebbe stato sano e salvo sulla Terra. Eppure, dopo tutti gli sforzi che gli era costato raggiungere la Torre, si sentiva un po' riluttante ad abbandonarla, ad arrendersi alla spinta della gravità, anche se ora lo riportava a casa. Poi si sganciò dal portello e cominciò a cadere, senza peso, verso il basso.
Quando la velocità raggiunse i trecento chilometri orari entrò in funzione il sistema di frenaggio automatico, e il peso tornò. Adesso la batteria sottoposta a quegli sforzi brutali si stava ricaricando, ma doveva essere danneggiata irrimediabilmente. Non sarebbe servita più a niente.
Gli venne in mente un paragone orribile: non poté impedirsi di pensare che anche il suo corpo era giunto ai limiti estremi, ma l'orgoglio testardo gli proibiva di chiedere che lo mettessero in comunicazione con un medico. Aveva fatto una scommessa con se stesso: si sarebbe fatto passare un medico solo se CORA diceva ancora qualcosa.
Adesso, mentre lui volava nella notte, CORA era silenziosa. Morgan si sentiva completamente rilassato. Si mise ad ammirare il cielo e abbandonò il Ragno a se stesso. Poche astronavi potevano offrire una visuale così panoramica, e non molti uomini avevano mai visto le stelle in condizioni tanto ideali. L'aurora boreale era svanita completamente, il proiettore s'era spento, e ormai niente incrinava lo splendore delle stelle.
A parte, ovviamente, le stelle che l'uomo aveva costruito. Quasi in verticale sopra di lui nasceva lo scintillio sorprendente di Ashoka, per sempre ferma sopra l'Indostan, lontana solo poche centinaia di chilometri dalla Torre. A est, a metà del cielo, c'era Confucio, molto più in basso Kamehameha, mentre in alto a ovest si levavano Kinte e Imhotep. Ed erano solo i punti più brillanti disposti lungo l'equatore; se ne potevano scorgere ancora a frotte, tutti molto più brillanti di Sirio. Quanto si sarebbe stupito un antico astronomo nel vedere quella collana di stelle allacciata in cielo; e quale turbamento avrebbe provato nel constatare, dopo un'ora o poco più d'osservazione, che erano immobili, che non sorgevano e non tramontavano mai, mentre le stelle familiari continuavano a seguire i loro antichissimi percorsi.
Mentre fissava quella collana di diamanti disposta in cielo, la mente assopita di Morgan la trasformò lentamente in qualcosa di molto più grandioso. Bastava un modesto sforzo di immaginazione, e quelle stelle create dall'uomo diventavano le luci di un ponte gigantesco… Si tuffò in fantasie ancora più sfrenate. Come si chiamava il ponte che portava al Walhalla, che gli eroi del le leggende nordiche usavano per trasferirsi da questo mondo all'altro? Non riusciva a ricordarlo, ma era un sogno glorioso. E forse altre creature, molto prima dell'uomo, avevano tentato invano di colmare i cieli dei loro mondi? Pensò agli splendidi anelli che circondavano Saturno, alle arcate spettrali di Urano e Nettuno. Sapeva perfettamente che quei pianeti non erano mai stati sfiorati dalla vita, ma lo divertiva pensare che si trattasse dei frammenti corrosi di ponti non riusciti.
Voleva dormire, ma, contro la sua stessa volontà, l'immaginazione s'era attaccata all'idea. Era come un cane che avesse appena trovato un osso, non mollava. L'idea non era assurda, e nemmeno originale. Molte delle stazioni sincrone si estendevano per chilometri, oppure possedevano all'esterno cavi che coprivano una parte non indifferente della loro orbita. Unirle assieme, formare un anello attorno al mondo, sarebbe stato molto più semplice che costruire la Torre, e sarebbe occorso molto meno materiale.
No, non un anello, "una ruota". La sua Torre era solo il primo raggio. Ne sarebbero sorte altre (quattro? sei? venti?) disposte lungo l'equatore. Una volta che fossero tutte collegate fra loro, rigidamente, in orbita, i problemi di stabilità che condizionavano una Torre sola sarebbero svaniti. L'Africa, il Sudamerica, le isole Gilbert, l'Indonesia: "tutti" quei posti potevano ospitare il capolinea terrestre, se necessario. Perché un giorno, col migliorare dei materiali e con l'avanzare della scienza, le Torri potevano diventare invulnerabili anche agli uragani più forti, e non sarebbe stato più necessario partire da una montagna. Se avesse aspettato altri cento anni, forse non avrebbe dovuto disturbare il Maha Thero…
Mentre lui sognava, la falce sottile della luna calante si era alzata timidamente sull'orizzonte orientale che splendeva già delle primissime luci dell'alba. Il chiarore della Terra illuminava con tanta forza il disco della luna che Morgan riusciva a vedere molti particolari del lato oscuro. Sperò di riuscire a scorgere quello spettacolo meraviglioso che in altri tempi non s'era mai visto: una stella persa fra le braccia della luna calante. Ma quella notte non era visibile nessuna delle città costruite sulla seconda patria dell'uomo.