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La droga dell’immortalità avrebbe fatto salire la popolazione del globo con un ritmo vertiginoso, e nel giro di pochi anni gli uomini sarebbero stati ridotti a morire di fame, o a mangiarsi tra loro.

E per paura di approfittare lui solo della scoperta: con l’aria che tirava sia nel suo paese sia nei paesi nemici del suo paese, c’era da chiedersi se valesse veramente la pena di vivere in eterno, o per lo meno di vivere indeterminatamente.

Risolse i suoi dubbi con un compromesso: non avrebbe dato la droga a nessuno, né, per il momento, l’avrebbe presa lui, finché non fosse stato ben sicuro di quel che voleva.

Nel frattempo decise di portarsi sempre con sé l’unica dose della droga che aveva sintetizzato. Era una quantità minima, agevolmente contenuta in una capsula insolubile che poteva tenere in bocca. La fissò sul lato di un dente finto in modo che restasse ben ferma fra quello e la parte interna della guancia, senza pericolo di trangugiarla inavvertitamente.

Nel caso, gli sarebbe stato facile in qualsiasi momento mettersi un dito in bocca, rompere la capsula e diventare immortale.

Il caso si presentò il giorno in cui, colpito da polmonite apicale e ricoverato all’ospedale di Mosca, ascoltò senza volerlo una conversazione fra un dottore e un’infermiera i quali, erroneamente, lo credevano addormentato: stavano dicendo che sarebbe morto fra poche ore. La paura della morte fu più forte della paura dell’immortalità, qualsiasi cosa l’immortalità gli potesse riservare. Così, non appena il medico e l’infermiera lasciarono la stanza, egli ruppe la capsula e ne inghiottì il contenuto.

Sperava, dato che la morte era tanto imminente, che la droga agisse in tempo per salvargli la vita, e così infatti avvenne, sebbene al momento in cui cominciò a fare effetto Smetakowskij fosse ormai scivolato nel corna e nel delirio.

Tre anni dopo, nel 1981, era ancora in preda al coma e al delirio e i medici sovietici avevano finalmente diagnosticato il suo caso e smesso di scervellarsi per venirne a capo.

Era evidente, dissero, che Smetakowskij aveva scoperto una specie di droga dell’immortalità, droga che peraltro non si riusciva a isolare o analizzare, la quale gli impediva di morire e con ogni probabilità avrebbe continuato a mantenerlo in vita indefinitamente, se non in eterno.

Ma disgraziatamente aveva reso immortali anche i batteri che aveva in corpo, i batteri (diplococcus pneumoniae) che gli avevano procurato la polmonite e che ora avrebbero continuato a mantenergliela per sempre.

Così i dottori, essendo realisti e non vedendo alcuna ragione per sobbarcarsi la fatica di un ricovero perpetuo, risolsero il problema seppellendolo.