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Sempre che fosse altruismo. Perché c’era ancora chi si domandava se la politica dei Superni sarebbe sempre coincisa col vero benessere dell’umanità.

6

Quando Rupert Boyce diramò gli inviti per la festa, la somma delle distanze espresse in miglia o chilometri risultò impressionante. Per elencare soltanto i primi dodici invitati, c’erano i Foster, che venivano da Adelaide, in Australia, gli Shoenberger da Haiti, i Farran da Stalingrado, i Moravia da Cincinnati, gli Invanko da Parigi e i Sullivan dai paraggi immediati dell’Isola di Pasqua, ma a quattro chilometri di distanza, presumibilmente, sul fondo dell’oceano. Fu un omaggio particolare a Rupert che, sebbene fossero stati invitati una trentina di ospiti, si presentarono alla villa più di quaranta persone: la percentuale che più o meno Rupert aveva previsto. Soltanto i Krause lo delusero, ma fu perché non avevano tenuto conto della differenza di data a causa dei fusi orari, e arrivarono così ventiquattr’ore più tardi.

A mezzogiorno una raccolta imponente di aerei si era radunata nel parco, e gli ultimi arrivati dovettero percorrere un bel tratto a piedi, dopo aver trovato un punto favorevole all’atterraggio. Gli apparecchi parcheggiati erano di ogni tipo, dai Fitterburg monoposto alle Cadillac per famiglia, molto più simili a palazzi aerei che a nervose macchine volanti. In quell’èra tuttavia non si poteva dedurre lo stato sociale degli invitati dai loro mezzi di trasporto.

«Ma che brutta villa» disse Jean Morrei, mentre il loro Meteor scendeva a spirale. «Sembra una scatola su cui qualcuno abbia appoggiato un piede.»

George Greggson, che aveva un’antipatia d’altri tempi per gli atterraggi automatici, modificò l’angolo d’inclinazione prima di rispondere. «Non si può giudicare la villa guardandola da quassù. A livello del terreno si presenta in tutt’altro modo. Oh, povero me!»

«Che cosa è successo?»

«Ci sono anche i Foster. Riconoscerei quelle sfumature di vernice ovunque.»

«Be’, nessuno ti obbliga a rivolgere loro la parola, se non vuoi. C’è questo vantaggio almeno, alle feste organizzate da Rupert: puoi sempre nasconderti in mezzo alla folla degli invitati.»

George aveva scelto un punto d’atterraggio e ora vi stava scendendo in picchiata. Andarono a posarsi librandosi lievi tra un altro Meteor e un coso che nessuno dei due riuscì a identificare. Aveva l’aria di essere velocissimo, pensò Jean, e terribilmente scomodo. Uno dei tecnici amici di Rupert, immaginò lei, l’aveva probabilmente costruito con le sue mani. Le pareva che ci fosse una legge che proibiva questo genere di cose. Il calore li colpì come la vampa di una fiamma ossidrica nell’istante in cui smontarono dall’apparecchio. Parve succhiare tutta l’umidità dei loro corpi, e George ebbe l’impressione che gli scricchiolasse la pelle. In parte era colpa loro, però. Erano partiti dall’Alaska tre ore prima, e avrebbero anche potuto pensare a condizionare la temperatura della cabina concordemente.

«Che razza di posto per abitare!» boccheggiò Jean. «Credevo che questo clima fosse condizionato!»

«Così è infatti» rispose George. «Qui era tutto deserto, un tempo; e guarda adesso che vegetazione! Vieni, staremo divinamente, una volta entrati in casa.»

La voce di Rupert, un po’ più alta del volume naturale, rimbombò allegramente nelle loro orecchie. L’ospite era ritto presso l’aereo, un bicchiere in ogni mano, e li guardava dall’alto in basso con aria sorniona. Ma li guardava dall’alto in basso per la semplice ragione che era alto almeno tre metri e mezzo ed era anche semitrasparente. Si poteva guardare attraverso il suo corpo senza la minima difficoltà.

«Bello scherzo da fare all’ospite, che dovrebbe essere sacro!» protestò

George. Aveva allungato una mano verso i bicchieri, e la mano c’era passata attraverso, come se i bicchieri fossero fatti d’aria. «M’auguro che tu abbia qualche cosa di meno rarefatto, per noi, quando saremo dentro.»

«Non ti preoccupare» disse Rupert. «Ordina da qui e troverai ogni cosa che ti aspetta appena sarai entrato!»

«Due birre grandi raffreddate in aria liquida» disse George prontamente.

«Arriveremo fra un minuto.»

Rupert annuì, depose uno dei suoi bicchieri su un’invisibile tavola, regolò una leva altrettanto invisibile e scomparve di colpo.

«Però!» disse Jean. «È la prima volta che vedo uno di questi congegni in azione. Come ha fatto Rupert a procurarselo? Credevo che solo i Superni li avessero.»

«Hai mai saputo che Rupert non sia riuscito ad avere qualche cosa che voleva?» rispose George, «È proprio il balocco che fa per lui. Mentre se ne sta tranquillamente seduto nel suo studio, può andarsene in giro per mezza Africa. Niente caldo, niente insetti, nessuno sforzo, e il bar sempre a portata di mano. Sarei curioso di sapere che ne avrebbero detto Stanley e Livingstone!»

Il sole troncò ogni altro scambio di parole fino a quando non furono davanti alla villa. Erano giunti sulla porta, che non era molto facile a distinguersi dal resto della parete di vetro che si levava loro dinanzi, quando la porta si spalancò automaticamente fra un tripudio di fanfare. Jean pensò, e a ragione, che ne avrebbe avuto fin sopra i capelli di quelle fanfare, prima che la festa fosse finita.