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Non c’era più niente, ora. Sebbene l’astronave avesse appena cominciato il viaggio, l’occhio umano non poteva vedere più niente. Ma nella memoria di Jan il ricordo di quell’itinerario luminoso continuava ad ardere, fascio di luce lanciato da un faro che non si sarebbe mai affievolito finché lui avesse avuto in sé ambizioni e desideri.

La festa era finita. Quasi tutti gli invitati erano ripartiti a bordo dei loro aerei e sciamavano ora verso i quattro angoli della Terra, tranne qualche eccezione.

Una era Norman Dodsworth, il poeta, che si era ubriacato vergognosamente, ma aveva almeno avuto il buon gusto di svenire prima di dare spettacolo. Con scarsa delicatezza, l’avevano sdraiato all’aperto con la speranza che qualche iena gli desse un rude risveglio. Stando così le cose, era come se Dodsworth non ci fosse affatto.

Tra gli altri rimasti erano George e Jean. Idea che non era stata affatto di George, il quale aveva una gran voglia di tornarsene a casa. Era ovvio che Rupert aveva in serbo qualche sorpresa, probabilmente d’accordo con Jean. George si rassegnò di malumore a qualunque sciocchezza stessero per propinargli.

«Ho tentato di tutto prima di fermarmi su questa» disse Rupert orgogliosamente. «Il problema fondamentale è quello di ridurre l’attrito allo scopo di ottenere la massima libertà di movimento. L’antiquata apparecchiatura a base di tavolo lucido e levigato col suo bravo bicchiere sopra non è tanto male, ma è in uso da secoli, ormai, e io ero sicuro che la scienza moderna poteva trovare di meglio. Ed ecco il risultato. Avvicinate pure le sedie… davvero non te la senti di unirti a noi, Rashy?»

Il Superno parve esitare per una frazione di secondo. Quindi scosse la testa. Avevano forse imparato quel gesto sulla Terra? pensò George.

«No, grazie» rispose. «Preferisco stare a guardare. Un’altra volta, forse.»

«Benissimo… c’è rutto il tempo che vuoi, qualora dovessi cambiare idea più tardi.»

«Ah, bene!» pensò George, più nero che mai, guardando l’orologio. Rupert aveva radunato il gruppetto di amici attorno a un tavolo piccolo ma massiccio e perfettamente rotondo. Il piano, di plastica, era un coperchio molto sottile, che egli sollevò per mettere in mostra un mare scintillante di cuscinetti a sfere strettamente connessi. L’orlo lievemente rilevato del tavolo impediva alle sfere di rotolare via, e George non riuscì a capire a che cosa servissero. Le centinaia di punti di luce riflessa formavano un disegno ipnotico, affascinante, sì che George ne ebbe la mente confusa. Mentre gli altri avvicinavano le sedie, Rupert allungò un braccio sotto il tavolo, prese un disco del diametro di dieci centimetri circa e lo appoggiò sulla superficie dei cuscinetti a sfera.

«Ecco qua» disse. «Appoggiate la punta delle dita su questo disco e vedrete che si muoverà senza fare resistenza.»

George si mise a osservare disco e tavolo con profonda diffidenza. Vide che le lettere dell’alfabeto erano disposte a intervalli regolari, anche se non in base a un preciso ordine di successione, lungo la circonferenza del tavolino, Inoltre c’erano i numeri dall’1 al 9, sparsi alla rinfusa tra le lettere, e due cartoncini con le parole «sì» e «no», l’uno di fronte all’altro, ai margini del tavolino.

«A me sembra un gioco di bussolotti» mormorò. «Mi stupisce che ci sia gente che lo prenda sul serio ancora oggi.» Si sentì meglio, dopo essersi alleggerito con questa piccola protesta rivolta tanto a Jean quanto a Rupert. Rupert si atteggiava a uomo di larghe vedute, ma tutt’altro che credulo, con soltanto un distaccato interesse scientifico per fenomeni del genere, Jean, d’altra parte… George, a volte era un po’ preoccupato nei suoi riguardi. Lei sembrava convinta che ci fosse qualcosa di molto vero in quei giochetti di telepatia e di preveggenza.

Fu solo dopo avere espresso la sua osservazione che George si accorse che la protesta toccava anche a Rashaverak. Lanciò nervosamente un’occhiata nella sua direzione, ma il Superno non dimostrò nessuna reazione. La qual cosa, com’era naturale, non significava assolutamente nulla. Ognuno aveva preso il suo posto. Nel senso delle lancette dell’orologio, sedevano Rupert, Maia, Jan, Jean, George e Benny Shoenberger. Ruth Shoenberger sedeva discosta, al di fuori del circolo, con in mano un quaderno. Ruth aveva fatto qualche obiezione a partecipare alla seduta, la qual cosa aveva indotto Benny a osservare in tono sarcastico che al mondo c’era ancora gente che prendeva sul serio il Talmud. Comunque, Ruth pareva dispostissima a fungere da segretaria.

«Ora» disse Rupert «vi prego di ascoltarmi attentamente. A beneficio degli scettici come George, sarà bene mettere molto in chiaro subito questo: ci sia o non ci sia un elemento soprannaturale in questa faccenda, vi dico che la cosa funziona. Personalmente ritengo che si possa dare una spiegazione di carattere strettamente meccanico. Quando noi poniamo la punta delle dita sul disco, anche se possiamo tentare d’influire sui suoi movimenti, il nostro subcosciente comincia a farci degli scherzi. Ho analizzato moltissime sedute di questo genere e non ho mai trovato risposte che qualcuno del gruppo potesse non sapere o non indovinare… anche se spesso nessuno ne era consapevole. Ad ogni modo, vorrei eseguire l’esperimento in queste circostanze, diremo così, peculiari.»

La Circostanza Peculiare se ne stava seduta a osservarli in silenzio, ma indubbiamente non con indifferenza. George si chiese che cosa pensasse esattamente Rashaverak di simili prodezze. Erano forse, le sue, le reazioni di un antropologo che osserva qualche primitivo rito religioso? Tutta la situazione era semplicemente grottesca, e George si sentì ridicolo come non gli era mai capitato di sentirsi in vita sua.

Se anche gli altri si sentivano ridicoli, non lo dimostrarono. Solo Jean era accesa in volto, eccitata; ma forse erano state le bevande alcoliche.

«Tutto a posto?» disse Rupert. «Bene.» Fece una pausa a effetto, quindi, senza rivolgersi a nessuno in particolare, domandò: «C’è forse qualcuno?»