Ma dietro quella decisione c’era un altro fattore di cui per il momento George non era conscio. L’esperienza di quella sera aveva indebolito il suo disprezzo e il suo scetticismo per le cose che interessavano particolarmente Jean. Non l’avrebbe mai ammesso, ma era così, e questo aveva rimosso l’ultima barriera che si levava tra loro.
Guardò Jean che giaceva pallida, ma composta e serena, nella poltroncina inclinabile dell’aereo. Le tenebre si addensavano sotto di loro, le stelle sopra. George non aveva la più pallida idea di dove si trovassero e non gliene importava niente. Era affare del pilota automatico che li stava pilotando verso casa e li avrebbe fatti atterrare, come annunciava l’indicatore sul cruscotto, esattamente entro cinquantasei minuti. Jean gli sorrise in risposta e dolcemente sciolse la mano dalla stretta delle dita di George.
«Solo per ristabilire la circolazione» disse, in tono di preghiera, soffregandosi le dita. «Vorrei che tu mi credessi, ora che ti assicuro di stare benissimo.»
«Allora, che cosa pensi che sia successo? Ricorderai, immagino, qualche cosa, non è vero?»
«No… c’è una lacuna nella mia memoria, il vuoto assoluto. Ho sentito Jan fare la domanda… e poi vi ho visto tutti che, agitatissimi, eravate chini su di me. Sono certa che deve essere stata una specie di trance. Del resto…»
Tacque per un istante e decise di non dire a George che quel genere di cose le era capitato altre volte. Sapeva come la pensava lui in merito e non intendeva sconvolgerlo maggiormente, o addirittura spaventarlo.
«Del resto… che cosa?» domandò George.
«Oh, niente. Sarei curiosa di sapere che cosa quel Superno ha pensato di tutta la faccenda. Forse gli abbiamo dato più di quanto si aspettasse.»
Jean fu scossa da un brivido e le si velarono gli occhi.
«Ho paura dei Superni, George. Non voglio dire che siano malvagi, né altre sciocchezze del genere. Sono certa che le loro intenzioni sono eccellenti e che fanno ciò che ritengono ci giovi di più, ma vorrei sapere quali sono i loro piani.»
George si mosse a disagio.
«È quello che l’umanità si chiede da quando sono comparsi sul nostro pianeta» rispose. «Ce lo diranno appena saremo abbastanza maturi per saperlo, e, a dirti la verità, io non sono molto curioso. Senza contare che ho cose più importanti a cui pensare.» Si girò verso Jean e le afferrò le mani.
«Che ne diresti di andare domani all’anagrafe, a firmare un contratto per… diciamo cinque anni?»
Jean lo guardò negli occhi e decise che, tutto sommato, non le dispia-ceva quel che sentiva quando guardava George.
«Facciamo dieci» rispose.
Jan tirava per le lunghe. Non c’era fretta, e poi voleva pensare. Era quasi come se temesse che approfondendo le cose la fantastica speranza si dissolvesse. Finché non aveva nessuna certezza, poteva continuare a sognare. Inoltre, prima di passare all’azione, doveva consultare la bibliotecaria dell’Osservatorio. La donna conosceva benissimo tanto lui quanto il suo campo di interessi, e la richiesta l’avrebbe sicuramente sconcertata. Forse non era una cosa importante, ma Jan preferiva non correre rischi. Fra una settimana avrebbe avuto un’occasione migliore. Sapeva di esagerare con le precauzioni, ma l’eccessiva cautela aggiungeva un gusto goliardico all’avventura. Inoltre Jan temeva il ridicolo più di qualsiasi cosa che i Superni potessero fare per ostacolarlo, e se si stava imbarcando su una nave che faceva acqua era meglio che nessuno lo sapesse. Per andare a Londra aveva un ottimo motivo, e gli accordi erano già stati presi da alcune settimane. Per quanto fosse troppo giovane e troppo poco qualificato per la carica di delegato, era però uno dei tre studenti che erano riusciti a farsi assegnare al gruppo ufficiale partecipante alla riunione dell’International Astronomical Union. In periodo di vacanze sarebbe stato un vero peccato perdere quell’occasione, dato che non vedeva Londra dall’infanzia. Anche se si trattava di argomenti che poteva capire, i rapporti che sarebbero stati presentati alla I.A.U. non gli interessavano gran che, ma, come ogni altro addetto a un congresso scientifico, sarebbe andato alle conferenze che si annunciavano più interessanti e avrebbe trascorso il resto del tempo a conversare con colleghi entusiasti o semplicemente curiosi. Londra era cambiata enormemente in quegli ultimi cinquant’anni. Ora la sua popolazione non superava i due milioni, ma le macchine superavano questa cifra di almeno cento volte. Non era più un grande porto, perché, come in ogni Paese autosufficiente, l’intera fisionomia del commercio internazionale era profondamente mutata. C’erano ancora prodotti che alcuni Paesi facevano meglio degli altri, ma raggiungevano la loro destinazione direttamente per via aerea.
Altre cose, però, non erano mutate. La città era ancora un centro amministrativo, artistico e culturale. In questi campi, nessuna delle metropoli continentali poteva rivaleggiare con Londra, nemmeno Parigi, nonostante che molti protestassero affermando il contrario. Un londinese di un secolo prima sarebbe stato capace di ritrovare la sua strada, almeno nel centro, senza difficoltà. C’erano nuovi ponti sul Tamigi, ma al posto dei vecchi. Le grandi, squallide stazioni della metropolitana erano scomparse, o per lo meno sopravvivevano soltanto nei sobborghi. Ma le Camere del Parlamento erano immutate: il monocolo Nelson fissava ancora Whitehall, la cupola di St. Paul si levava ancora su Ludgate Hill, anche se adesso si vedevano edifici più alti sfidare il suo primato.
E le guardie montavano ancora di sentinella davanti a Buckingham Palace. Fu solo nel secondo giorno del Congresso che a Jan si offrì l’occasione che cercava. Sembrava che non ci fosse nessuno in sede, in quel momento. Jan, stringendo nella mano il suo cartoncino di socio, come un passaporto, nell’eventualità di qualche controllo inatteso, non ebbe difficoltà a trovare la biblioteca.
Gli ci volle quasi un’ora per trovare quel che cercava e imparare a servirsi dei grandi cataloghi stellari con i loro milioni di voci. Tremava lievemente quando cominciò a intravedere la fine delle sue ricerche e fu lieto che non ci fosse nessuno ad assistere al suo nervosismo. Rimise a posto il catalogo e rimase per molto tempo seduto immobile, fissando, senza vederla, la parete coperta dagli scaffali zeppi di volumi. Infine si allontanò a passo lento per i corridoi silenziosi e giù per le scale. Aveva evitato l’ascensore, perché voleva essere libero e non rinchiuso in uno spazio angusto.
Aveva la mente ancora in pieno caos quando attraversò la strada per raggiungere il parapetto del Lungotamigi, dove lasciò che il suo sguardo seguisse il fiume nel suo lento corso verso il mare. Passeggiando lentamente passò in rassegna i dati di fatto, uno dopo l’altro. Dato N. 1: nessuno, alla festa di Rupert, poteva sapere che lui avrebbe fatto quella particolare domanda. Non lo aveva saputo nemmeno lui fino al momento di formularla, come spontanea reazione alle circostanze. Pertanto, nessuno avrebbe potuto preparare una risposta o averla già avuta nella mente.
Dato N. 2: NGS 549672 probabilmente non significava niente per nessuno che non fosse astronomo. Sebbene il grande National Geographic Survey fosse stato completato da mezzo secolo, la sua esistenza era nota soltanto a qualche migliaio di specialisti. E prendendovi un numero qualunque a casaccio, nessuno avrebbe potuto dire in quale punto del cielo si trovasse quella stella particolare.