Cosa perfettamente vera, pensò Sullivan. E da quel che ne sapeva, quello era un fatto sconosciuto riguardo al mondo dei Superni. Jan avrebbe visto cose molto interessanti.
«Nella vostra Bibbia» riprese Karellen «si legge il racconto molto notevole di un profeta ebreo, un certo Giona, se non erro, che fu inghiottito da una balena e così trasportato a riva sano e salvo, dopo essere stato gettato in mare dalla sua nave. Ritenete che il mito si basi su fatti realmente avvenuti?»
«Io credo» rispose Sullivan cautamente «che ci sia stato qualche pescatore di balene che inghiottito da un cetaceo sia poi stato rigurgitato senza gravi conseguenze. Naturalmente, non può essere stato in gola alla balena più di qualche secondo, diversamente sarebbe morto soffocato. E deve aver avuto molta fortuna a non impigliarsi nei denti! È una storia quasi incredibile, ma non impossibile.»
«Molto interessante» disse Karellen. Rimase là ancora per qualche secondo a fissare le fauci cavernose, quindi si spostò di alcuni passi, per osservare la piovra. Sullivan s’augurò che non avesse sentito il suo sospiro di sollievo.
«Se avessi saputo tutto quello che dovevo passare» disse Sullivan «vi avrei cacciato dal mio ufficio non appena avete tentato di contagiarmi con la vostra follia.»
«Mi dispiace molto» rispose Jan. «Ma in fondo ce la siamo cavata.»
«Speriamo. Buona fortuna, a ogni modo. Se voleste cambiare idea, avete ancora almeno sei ore di tempo.»
«Non mi serviranno. Solo Karellen potrebbe fermarmi, adesso. E grazie per tutto quello che avete fatto per me. Se mai dovessi tornare, in grado di scrivere un libro sui Superni, lo dedicherò a voi.»
«Un gran bene, mi farà, il vostro libro!» rispose bruscamente Sullivan.
«Sarò morto da decenni!» Con sua grande meraviglia, e anche un’ombra di costernazione perché non era certo un sentimentale, si accorse che quegli addii cominciavano a commuoverlo. Si era abituato a Jan in quelle settimane passate insieme a cospirare, e gli si era affezionato. Inoltre, cominciava a temere di diventare correo in una forma alquanto complicata di suicidio.
Tenne ferma la scaletta, mentre Jan saliva entro la gran bocca, facendo bene attenzione a non toccare le file dei denti. Alla luce della torcia elettri-ca, vide Jan voltarsi e fargli un cenno di saluto, poi scomparire nella cavità. S’udì il suono del portello a chiusura stagna che si apriva e richiudeva. Infine, silenzio.
Nel chiaro di luna che aveva trasformato la battaglia pietrificata in una scena d’incubo, il professor Sullivan tornò lentamente verso il suo ufficio. Rifletteva su quello che aveva fatto e sulle conseguenze. Conseguenze che lui avrebbe sempre ignorato, naturalmente. Jan sarebbe forse tornato a camminare in quello stesso punto del mondo avendo speso soltanto qualche mese di vita nel viaggio di andata per il pianeta dei Superni e in quello di ritorno. Ma questo ritorno, se ci fosse stato, sarebbe avvenuto oltre l’invalicabile barriera del Tempo, perché l’evento avrebbe potuto verificarsi solo ottant’anni più tardi.
Le luci si spensero nel minuscolo cilindro metallico appena Jan ebbe serrato il portello a chiusura stagna. Non si abbandonò a riflessioni e pentimenti, ma si mise immediatamente a controllare l’inventario che aveva già preparato. Tutte le scorte e le provviste erano già state stivate da alcuni giorni, ma un’ultima verifica l’avrebbe messo nel giusto stato d’animo che gli occorreva, con la certezza che non era stato trascurato niente. Un’ora più tardi, soddisfatto, si sistemò comodo nella poltroncina di gomma piuma, e ricapitolò il suo piano punto per punto. Lì dentro l’unico rumore era il ronzio dell’orologio-calendario da cui avrebbe saputo quando il viaggio stava per finire.
Per quanto tremenda fosse la forza che faceva volare l’astronave dei Superni, grazie alla perfetta compensazione lì nella sua nicchia lui non avrebbe sentito niente. Sullivan aveva controllato con cura questo particolare, sottolineando che il nascondiglio non avrebbe resistito oltre una certa gravità, e gli aveva assicurato che da quel lato non c’erano pericoli. Naturalmente durante il volo ci sarebbe stato un cambiamento considerevole di pressione, che non avrebbe però portato alcun danno, perché le bestie, cave all’interno, «respiravano» da diversi fori appositi. Prima di uscire dalla sua nicchia, Jan avrebbe dovuto controllare la pressione per compensare un eventuale squilibrio. Per quanto riguardava una probabile irrespirabilità dell’atmosfera, infine, un semplice respiratore composto da una bombola di ossigeno e una maschera sarebbe bastato per ovviare all’inconveniente. Se invece l’aria all’interno dell’astronave era respirabile, tanto meglio. Tutto molto chiaro.
Bene, non c’era scopo ad aspettare ancora. Rimandare avrebbe soltanto acuito la tensione nervosa.
Trasse la piccola siringa, già carica di una soluzione accuratamente preparata. La narcosamina era stata scoperta durante le ricerche nel campo dell’ibernazione animale. Non era esatto dire, come credevano i profani, che la narcosamina producesse una sospensione della vita fisiologica. Tutto quello che faceva era rallentare enormemente i processi vitali, ma il metabolismo continuava, sebbene con un ritmo infinitamente minore. Era come gettare cenere sul fuoco della vita per lasciarlo covare inavvertito. Ma quando, dopo settimane o mesi, gli effetti della droga cominciavano a svanire, il fuoco riprendeva la sua forza, e il dormiente ricominciava a vivere al punto in cui era rimasto. La narcosamina era assolutamente innocua. La Natura se ne serviva da un milione di anni per proteggere molti dei suoi figli dagli inverni senza cibo.
Così Jan dormì. Non sentì la trazione dei cavi che issavano l’enorme gabbia metallica fin entro il ventre dell’astrocargo dei Superni. Non udì i portelli che si chiudevano, per riaprirsi soltanto dopo milioni e milioni di chilometri. Non udì lontanissimo, appena percettibile al di là delle paratie di titanio, l’urlo di protesta dell’atmosfera terrestre lacerata dall’astronave che risaliva rapidissima verso il suo elemento naturale. E non sentì infuriare la superpropulsione.
13
La sala delle riunioni era sempre affollata in occasione di quegli incontri settimanali, ma oggi era così gremita che i cronisti non riuscivano nemmeno a prendere note. Per la centesima volta, brontolavano tra loro contro lo spirito conservatore di Karellen e la sua mancanza di considerazione. In qualunque altra parte del mondo avrebbero potuto portare telecamere, nastri magnetici e tutti gli altri strumenti del loro specializzatissimo lavoro. Ma lì dovevano affidarsi a mezzi arcaici come la carta e la matita, e perfino, incredibile a dirsi, la stenografia. Le prime volte c’erano stati diversi tentativi di registrazione, molto più comodo che non stenografare, ma il fumo che era uscito immediatamente dai registratori aveva convinto tutti dell’inutilità del tentativo, e anche spiegato perché veniva sempre consigliato di lasciare fuori della sala delle conferenze gli orologi e altre eventuali congegni metallici. Per colmo d’ironia Karellen registrava invece tutto ciò che veniva detto. Alcuni giornalisti colpevoli di leggerezza e di imprecisione o di malafede, per quanto questi ultimi casi fossero stati molto scarsi, erano stati in seguito convocati per un breve e spiacevole incontro con degli incaricati di Karellen, che li avevano pregati di ascoltare attentamente la registrazione di quello che il Supercontrollore aveva realmente detto. Dopo quella volta, la lezione non dovette più essere ripetuta.
Strano come circolano certe notizie. Ogni volta che Karellen doveva fare qualche importante dichiarazione, cosa che capitava due o tre volte all’anno, la sala delle conferenze era sempre affollata nonostante che non venisse mai dato nessun preannuncio. Il silenzio discese sulla turba mormorante quando i grandi portali si spalancarono e Karellen avanzò sul palco. La luce qui era fioca — una luce come quella, approssimativamente, che emetteva il lontanissimo sole dei Superni così che il Supercontrollore della Terra aveva fatto a meno degli occhiali neri che di solito portava allo scoperto. Rispose al coro discorde di saluti con un «Buon giorno a tutti» di prammatica, e poi si volse verso un’alta figura di particolare distinzione in prima fila. Il signor Golde, decano dell’Associazione della Stampa, sarebbe potuto essere l’ispiratore ufficiale dell’annuncio, da parte di un maggiordomo: «Tre cronisti, milord, e un signore del ‘Times’». Era vestito come un diplomatico di vecchia scuola e ne aveva i modi: nessuno avrebbe esitato un istante ad aver fiducia in lui e nessuno aveva mai dovuto pentirsi, infatti, di essersi fidato.