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«Quanta gente oggi, signor Golde. Deve esserci una grande scarsità di notizie sensazionali.»

L’inviato del «Times» sorrise, e si schiarì la voce.

«Spero che possiate smentire il fatto, signor Supercontrollore.»

Osservò attentamente Karellen che meditava sulla risposta da dare. Sembrava così ingiusto che le facce dei Superni, dure ed ermetiche come maschere, non rivelassero ombra d’emozione! I grandi occhi distanziati, le pupille fortemente contratte anche in quella luce blanda, ricambiavano insondabilmente le occhiate francamente curiose degli umani.

«Sì, ho qualche notizia interessante. Come indubbiamente sapete, una delle mie astronavi addette ai rifornimenti ha lasciato di recente la Terra per tornare alla sua base. Abbiamo appena scoperto che a bordo c’era un clandestino» disse il Supercontrollore.

Cento matite s’impuntarono sulla carta, immobilizzandosi: cento paia d’occhi fissarono Karellen.

«Un clandestino, avete detto, signor Supercontrollore?» chiese Golde.

«Posso domandarvi chi è e come è salito a bordo?»

«Il suo nome è Jan Rodricks: si tratta di uno studente di fisica e astronomia dell’Università di Città del Capo. Potrete senza dubbio scoprire altri particolari grazie ai vostri efficientissimi organismi d’informazione.»

Karellen sorrise. Il sorriso del Supercontrollore era una cosa molto strana. Quasi tutto l’effetto in realtà era dato dagli occhi: la inflessibile bocca senza labbra non si muoveva quasi. Era forse, pensò Golde, un’altra delle molte caratteristiche umane che Karellen aveva imitato con tanta abilità?

Perché l’effetto totale era senza dubbio quello d’un sorriso, e la mente lo accettava all’istante come tale.

«Quanto al modo in cui è potuto partire» continuò Karellen «non ha molta importanza. Posso assicurare i presenti, o qualunque altro potenziale astronauta, che non c’è nessuna possibilità di ripetere l’impresa.»

«Ma che cosa accadrà a questo Rodricks?» insistette Golde. «Sarà rimandato sulla Terra?»

«È una cosa, questa, che esula dalle mie competenze, ma ritengo che tornerà con la prima nave in arrivo. Troverebbe condizioni troppo… diverse… per sentirsi a suo agio, là dove è andato. E ciò mi riconduce allo scopo principale della nostra riunione.» Karellen fece una pausa, e il silenzio divenne ancor più profondo. «Ci sono state lamentele tra i più giovani e romantici elementi della specie umana perché lo spazio cosmico è stato proibito all’uomo. Noi abbiamo uno scopo preciso, signori, non imponiamo divieti per il solo gusto d’imporli. Vi siete mai soffermati a considerare, se mi perdonerete un paragone non molto lusinghiero, che cosa avrebbe sentito un uomo dell’Età della Pietra se si fosse trovato a un tratto in una grande città moderna?»

«Eppure» protestò l’inviato dell’»Herald Tribune» «c’è indubbiamente una differenza fondamentale. Noi abbiamo fatto l’abitudine alla scienza. Sul vostro mondo ci sono moltissime cose che senza dubbio noi non potremmo capire… ma non ci sembrerebbero davvero opera di magia!»

«Ne siete proprio sicuro?» ribatté Karellen così piano che fu appena possibile udirlo. «Non più di cento anni intercorrono fra l’era della elettricità e quella del vapore, ma cosa se ne sarebbe fatto, un ingegnere dell’Ottocento, di un televisore o di una calcolatrice elettronica? E quanto gli sarebbe rimasto da vivere se avesse voluto scoprire il loro funzionamento? Il divario fra due tecnologie può essere così ampio, da rivelarsi… letale.»

(«Siamo fortunati» disse l’inviato della «Reuter» a quello della BBC. «È in vena di dichiarazioni importanti sulla loro politica nei nostri riguardi. Conosco i sintomi.)»

«E ci sono altre ragioni per cui abbiamo costretto il genere umano entro i confini della Terra. Osservate.»

Le luci si affievolirono e infine si spensero. Nell’istante in cui scomparvero, un’opalescenza lattiginosa si formò nel centro della sala, macchia di luce biancastra che si condensò poi in un vortice di stelle… una nebulosa a spirale vista da un punto posto molto al di là del suo sole più esterno.

«Nessun occhio umano ha mai visto questa immagine prima d’ora» disse la voce di Karellen dal buio. «Voi ora state guardando il vostro Universo, l’isola galattica di cui il vostro Sole fa parte, da una distanza di mezzo milione di anni luce.»

Seguì un lungo silenzio. Quando Karellen riprese a parlare, nella sua voce era percettibile un sentimento che non era del tutto pietà e non precisamente sarcasmo.

«Oggi avete un mondo in pace, siete una specie unita. In breve vi sarete abbastanza inciviliti da poter governare il vostro pianeta senza il nostro aiuto. Forse potrete alla fine addossarvi i problemi di un intero Sistema Solare… diciamo di cinquanta mondi fra lune e pianeti. Ma credete davvero di poter mai avere a che fare con questo?»

La nebulosa cominciò a dilatarsi. Ora le singole stelle passavano via velocissime; apparendo, avvicinandosi, scomparendo infine come faville lanciate dall’alito di una immensa fucina. E ognuna di quelle scintille fuggenti era un sole, con chi sa quanti mondi che gli gravitavano intorno…

«In questa sola nostra galassia» mormorò Karellen «ci sono ottantasettemila milioni di soli. Ma anche questa cifra non dà che un’idea molto vaga dell’immensità dello spazio. Sfidandola, sareste come formiche che tentassero di classificare ed etichettare tutti i granelli di sabbia di tutti i deserti del mondo. La vostra razza, allo stato attuale della sua evoluzione, non è in grado di affrontare una sfida così grandiosa. Uno dei miei doveri è stato quello di proteggervi dalle forze che si trovano fra le stelle… forze superiori a qualunque cosa possiate mai immaginare.»

L’immagine dei turbinanti vapori infuocati della galassia cominciò a sbiadire, e la luce tornò nel silenzio attonito della sala. Karellen si mosse: la conferenza era finita. Sulla soglia si fermò, volgendosi a guardare la folla, che tacque all’istante.

«È un pensiero che rattrista, ma dovete rassegnarvi. Può darsi che un giorno possiate conquistare i pianeti. Ma le stelle non sono per l’uomo.»

«Le Stelle non sono per l’Uomo.» Sì, vedersi sbattere sul muso la porta dello spazio li avrebbe addolorati. Ma dovevano imparare a guardare in faccia la verità, o quella parte di verità che sarebbe stata data loro. Dalle solitarie altezze della stratosfera, Karellen abbassò lo sguardo sul mondo e sulle creature che erano state affidate alla sua riluttante tutela. Pensò a tutto quello che doveva ancora succedere e a quello che sarebbe stato quel mondo fra una decina di anni al più tardi. Non avrebbero mai saputo quanto erano stati fortunati. Per la durata di un’intera vita umana, il genere umano aveva raggiunto tanta felicità quanta qualunque specie vivente possa mai conoscere. Era stata l’Età dell’Oro. Ma l’Oro era anche il colore del tramonto, dell’autunno: e soltanto le orecchie di Karellen potevano cogliere i primi gemiti delle bufere invernali. E solo Karellen sapeva con quanta inesorabile rapidità l’Età dell’Oro volgesse alla fine.