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Il fosco colore rosso si stava ravvivando, si faceva di una sfumatura più carica. Strisce d’un giallo brillante apparivano, tanto che per un attimo Jan ebbe l’impressione di avere sotto gli occhi un vulcano che rovesciasse fiumane di lava sulla piana sottostante. Ma quelle fiumane come si poteva vedere da occasionali sfavillamenti, da striature, avevano un moto ascensionale. Ora qualcos’altro sorgeva dai vapori di rubino intorno alla base della montagna: un anello enorme, perfettamente orizzontale, perfettamente circolare… e aveva il colore di tutto quello che Jan si era lasciato dietro, a una lontananza infinita. Il cielo della Terra non aveva mai avuto azzurro più celestiale. In nessun altro momento, sul mondo dei Superni, Jan aveva visto simili sfumature, e gli si strinse la gola alla nostalgia, alla malinconia che ispiravano.

L’anello si dilatava a misura che saliva. Era più alto della montagna, ora, e la curva più vicina a Jan si espandeva verso di lui. È evidente, si disse Jan, che si trattava di un vortice di qualche genere… un anello di fumo che ha già parecchi chilometri di diametro. Ma l’anello non mostrò minimamente la rotazione che l’uomo si aspettava, e ora sembrava farsi sempre più solido a misura che la sua superficie aumentava.

L’ombra passò rapida, molto prima che l’anello stesso, maestosamente, trascorresse altissimo, continuando a salire nello spazio, Jan lo osservò fino a quando non si fu ridotto in un esile filo azzurrognolo, difficile a distinguersi nel circostante rossore del cielo. Quando scomparve, alla fine, doveva già avere un diametro di parecchie migliaia di chilometri. E continuava a dilatarsi e a rafforzarsi. Jan tornò a guardare la montagna: adesso era d’oro, e perfettamente liscia. Forse era solo la sua immagine… adesso Jan era disposto a credere qualsiasi cosa… ma sembrava più alta e più stretta, e pareva che girasse su se stessa come una tromba d’aria.

Poi Jan si ricordò della macchina fotografica. La sollevò all’altezza dell’occhio e cercò di puntarne l’obiettivo verso quell’enigma troppo assurdo e sconvolgente.

Vindarten apparve improvvisamente davanti al suo obiettivo. Con fermezza implacabile, le grandi mani si levarono contro la lente, costringendolo ad abbassare la macchina fotografica. Jan non cercò di resistere; sarebbe stato inutile, naturalmente, ma a un tratto ebbe una paura mortale di quella cosa laggiù, ai confini del pianeta, e non volle più guardare. Non c’era stato mai altro nelle sue gite che gli avessero proibito di fotografare, ma Vindarten non gli fornì nessuna spiegazione. Il Superno dedicò invece molto tempo a farsi descrivere da Jan fin nelle più minute particolarità tutto quello che aveva visto. Fu allora che Jan si accorse che gli occhi di Vindarten avevano visto qualcosa di totalmente diverso; e fu allora che intuì, per la prima volta, che i Superni avevano a loro volta dei padroni.

Adesso stava tornando al suo pianeta d’origine, e tutto lo stupore, la paura, il mistero erano lontanissimi. Gli sembrava che fosse la stessa astronave dell’andata, sebbene non di certo lo stesso equipaggio. Per lunghe che fossero le loro vite, era difficile credere che i Superni rimanessero lontani dalle loro case per tutti i decenni richiesti da una spedizione interstellare. L’effetto di dilatazione temporale della legge sulla relatività si verificava, naturalmente, nei due sensi. I Superni, quindi invecchiavano di soli quattro mesi durante il viaggio di andata e ritorno, ma nel frattempo i loro amici invecchiavano di ottant’anni.

Se lo avesse desiderato, Jan avrebbe potuto probabilmente rimanere su quel pianeta per tutto il resto della sua vita. Ma Vindarten lo aveva avvertito che non ci sarebbero state altre astronavi in partenza per la Terra per parecchi anni, e lo aveva ammonito a cogliere quell’occasione. Forse i Superni si erano accorti che anche in quel breve lasso di tempo la sua mente era quasi giunta allo stremo delle sue risorse. Oppure poteva darsi che fosse diventato una seccatura, e loro non volessero perdere altro tempo per lui.

Ma la cosa non aveva importanza, ora, perché la Terra era là, davanti a lui. L’aveva vista così centinaia di volte prima d’ora, ma sempre attraverso l’occhio staccato, freddo, della televisione. Ora finalmente era proprio lui, in persona, nello spazio cosmico mentre l’ultimo atto del suo sogno si stava compiendo e la Terra girava, ai suoi piedi, su se stessa, lungo la sua eterna orbita.

La Luna era al suo primo quarto crescente, e quindi oltre metà della faccia visibile era ancora immersa nell’ombra. C’erano poche nuvole in cielo, solo alcune striature sparse lungo il corso dei venti. Lo scintillio della calotta polare artica perdeva la gara con l’accecante riflesso del sole sul Pacifico. Sì poteva credere che il pianeta avesse soltanto acqua: in quell’emisfero non si vedeva terra. Unico continente di cui si intuiva appena l’esistenza della nebulosa chiazza più scura sulla curva della Terra, era l’Australia. La nave si muoveva entro il gran cono d’ombra della Terra: la falce scintillante rimpicciolì, si ridusse a un arco sottile di fuoco, scomparve. Sotto non c’erano che le tenebre della notte. Il mondo dormiva. Fu allora che Jan si rese conto della differenza. Si vedeva la Terra laggiù, ma dov’erano… le scintillanti collane di lumi, dov’erano le chiazze formicolanti di luce che erano state le metropoli dell’uomo? In tutto l’emisfero in ombra non c’era una luce a respingere la notte. Scomparsi senza lasciare traccia i milioni di kilowatts che un tempo erano stati profusi senza risparmio verso le stelle. Era come guardare la superficie della Terra prima della comparsa dell’uomo.

Questo non era il ritorno che Jan si aspettava; ma non poteva fare altro che guardare, mentre la paura dell’ignoto aumentava nel suo cuore. Qualcosa doveva essere successo… qualcosa d’inimmaginabile. E tuttavia l’astronave stava calando con un intento preciso lungo un’ampia curva che la riportava nell’emisfero illuminato dal sole.

Non poté vedere niente dell’atterraggio vero e proprio, perché l’immagine della Terra a un tratto svanì, per essere sostituita sullo schermo da quell’incomprensibile trama di linee e di luci. Quando la visione fu di nuovo possibile, erano già sul terreno. S’intravedevano grandi edifici in distanza, tra macchine in moto con un gruppo di Superni intenti a guardare qualche cosa. S’udì il rombo soffocato dell’aria mentre la nave eguagliava la pressione, poi il rumore dei grandi portelli che si aprivano. Jan non attese: i silenziosi giganti lo guardarono con tolleranza, o indifferenza, uscire di corsa dalla sala comando.

Era a casa, rivedeva la luce smagliante del suo sole, respirava l’aria che gli aveva gonfiato i polmoni quando era nato. La passerella era già stata abbassata, ma Jan dovette aspettare un momento per non venire accecato dalla luminosità esterna.

Karellen stava ritto, un po’ discosto dai suoi compagni, presso un grande autocarro carico di casse. Jan non si soffermò a chiedersi come avesse fatto a riconoscere il Supercontrollore, e non si stupì di trovarlo del tutto immutato. Si può dire che fosse la sola cosa che gli apparve come se l’era immaginata.

«Vi stavo aspettando» disse Karellen.

22

«I primi tempi» disse Karellen «potevamo andare fra loro senza pericolo. Ma non avevano più bisogno di noi: la nostra opera fu compiuta dopo che, radunatili tutti insieme, avevamo dato loro un continente. Guardate.»

La parete davanti a Jan scomparve, e ora lui guardava da un’altezza di qualche centinaio di metri su una regione amenamente boscosa. L’illusione era così perfetta che per qualche istante Jan dovette lottare contro il capogiro.