Fece una lunga pausa, poi aggiunse a bassa voce: — E adesso che l’ho incontrata, credo che lei le approverà.
Si girò e si stava già dirigendo verso la porta prima che Judith potesse formulare una risposta. Il colloquio con Salter Wherry era finito.
CAPITOLO SETTIMO
— La Terra è stata considerata per secoli come una gigantesca macchina in grado di autoregolarsi, di assorbire tutti i cambiamenti, grandi e piccoli, diluendo i loro effetti fino a quando non diventavano invisibili su scala globale. L’umanità ha dato per scontata quella stabilità. Incuranti delle conseguenze, abbiamo guardato le foreste che venivano spazzate via, i laghi avvelenati, i fiumi dannati e deviati, le montagne livellate, intere pianure scavate per estrarne il contenuto di minerali e combustibile. E non è successo nulla di disastroso, la Terra ha tollerato gli insulti e ha ripristinato lo status quo.
«Sempre, fino ad ora. Fino a quando, alla fine, è stato superato un certo punto critico. L’allontanamento da uno stato costante si segnala in molti modi: l’aumento delle temperature degli oceani, le siccità e le inondazioni. Una perdita diffusa dello strato superficiale del suolo, un fallimento massiccio dei raccolti, e il crollo delle industrie ittiche a livello mondiale.
«Sono state proposte molte soluzioni, ma adesso nessuna di esse può anche soltanto venir tentata. Tutte richiedono una certa pratica nel campo della conservazione, l’inversione di certi cambiamenti. Questo è impossibile. Con una popolazione mondiale che si avvicina agli otto miliardi, tutti i margini per tentare degli esperimenti sono scomparsi da tempo. A mano a mano che le risorse diventano più scarse, la pressione perché venga aumentata la produzione cresce sempre più. Le nazioni più ricche praticano un crescente livello d’isolazionismo e di cautela, quelle povere hanno raggiunto il punto della più assoluta disperazione. I materiali prodotti nello spazio non sono altro che un rigagnolo, là dove sarebbe necessaria una inondazione.
«Non vi offro niente per il vostro conforto. Il mondo è pronto a esplodere e io non vedo nessuna maniera per evitare quell’esplosione. Quella che io vi offro è soltanto una possibilità per alcuni dei vostri figli…
— Lo stai leggendo ancora? — chiese Jan de Vries. Aveva attivato il collegamento videofonico tra gli uffici. Al suono della sua voce, Judith Niles mise giù quella smilza trascrizione.
— Sono pronta ad andarmene. Non credo di voler leggere di più. Hai dato un’occhiata a questo?
De Vries annuì. — Non è difficile capire perché Salter Wherry non goda di molta popolarità nelle stimate sale delle Nazioni Unite. La sua campagna di reclutamento per le colonie spaziali è certamente efficace, ma non dipinge un quadro incoraggiante del futuro del mondo. Speriamo che si sbagli. — Spostò l’indice lungo la linea dei suoi baffi ben tagliati. — La tuta è pronta. Non appena anche tu sarai pronta, lo saranno anche loro.
— Chi lo farà? Ho affidato il controllo finale a Charlene.
— Wolfgang Gibbs. È giovane ed è in forma. E siamo d’accordo che non è pericoloso.
Judith Niles parve pensierosa. — Non ne sono sicura. Il vuoto è il vuoto, non ci si gioca. Di’ loro che lo preparino. Arriverò tra poco.
Quando arrivò, i preparativi finali nel laboratorio erano stati completati. L’attrezzatura per la resurrezione d’emergenza era disposta sui banchi lungo le pareti. Nel mezzo, seduto a un lungo tavolo in una camera a chiusura ermetica, Wolfgang Gibbs si stava sistemando i guanti della tuta spaziale. Charlene Bloom era al suo fianco, intenta a controllare il casco in maniera ossessiva. Si raddrizzò quando Judith Niles entrò nella stanza.
— Sei sicura che questo sia un modello di quelli che adesso usano sulla Stazione Salter? — chiese Charlene. — Mi sembra di notare delle piccole differenze nelle chiusure.
Judith annuì. — Gli schemi che ci hanno dato non erano del tutto giusti. Abbiamo controllato. Stando ad Hans Gibbs, questo è il modello che usano adesso. Tutto collegato?
Wolfgang si voltò e la fissò. Il suo volto era pallido attraverso la visiera. — Almeno quanto lo siete voi — dichiarò attraverso la radio della tuta.
Charlene accostò la testa al casco. — Spaventato? — chiese a bassa voce.
— Ti lascio indovinare. — Le sorrise attraverso la stretta visiera. — Ho le budella di gelatina. Adesso so cosa devono provare le cavie. Procediamo. Uscite di qua e proviamo la pressione.
Mentre parlava, le luci del soffitto tremolarono, divennero fioche, poi lentamente ritornarono alla massima intensità.
— Gesù! — esclamò Charlene. — Fanno tre oscuramenti parziali in due ore. — Guardò l’altra donna. — Dobbiamo andare avanti, JN? Pare ci sia qualcosa di orribilmente sbagliato con la rete.
— Cortocircuiti nel collegamento con la Cina — dichiarò Judith Niles. — Cameron ha controllato questo pomeriggio, e dice che le cose peggioreranno ancora. Si aspettano che la Cina molli completamente fra una settimana o giù di lì, sono al di sopra delle loro capacità e il loro equipaggiamento è vecchio. Perciò qui non vale la pena rimandare. Abbiamo il nostro apparato di riserva, e funziona bene.
— Allora andiamo avanti — disse Gibbs. Con vivo orrore di Charlene Bloom, allungò una mano e le diede una strofinata furtiva lungo la coscia col guanto, sul lato nascosto allo sguardo di Judith Niles.
Charlene si ritrasse da lui con uno scatto e scosse la testa inferocita. Aveva detto a Wolfgang più e più volte che la vita privata non doveva mai immischiarsi con il loro lavoro.
— Così, mi stai dicendo che vuoi smettere? — lui le aveva detto.
Lei era stata momentaneamente in silenzio, girando la testa per guardargli la spalla nuda e abbronzata. — Sai che non voglio. Ma non devi neanche essere orribile. So che hai una reputazione nell’Istituto, e non ti sto chiedendo di parlarmene. Ma ricordati che questa è la prima volta per me, la prima volta che… sì, che faccio qualcosa del genere.
Lui si era girato a sua volta per abbassare gli occhi sul suo viso, con un’espressione che le aveva fatto provare un brivido in tutto il corpo. — Anche per me.
Bugiardo, era stata sul punto di dire. Poi l’aveva guardato di nuovo. Pareva del tutto serio. Lei aveva voluto credergli a tutti i costi, voleva ancora credergli; ma non adesso, non quando JN li stava osservando, anche se lui la stava fissando con tanta intensità attraverso la visiera della tuta…
Charlene si voltò con rapidi movimenti e uscì dalla camera a pressione. — Chiusa e in riduzione — annunciò. Cercò di tenere gli occhi sugli indicatori, lontano da Wolfgang. La pressione era misurata in chilogrammi per centimetro quadrato, e anche come altitudine barometrica. Le due donne fissarono in silenzio i read-out che tremolavano diventando più fiochi durante la prima riduzione.
— Altezza equivalente a tre chilometri — disse Charlene. — Ti senti bene, Wolfgang?
Lui grugnì. — Nessun problema. — La sua voce appariva assai più rilassata di quanto si sentisse in realtà. — Stando alle mie indicazioni abbiamo un equilibrio fra la pressione interna e quella esterna. Giusto?
— Esatto. Adesso sei in ossigeno puro. Ti senti stringere alle giunture della tuta, o provi qualche sensazione di stordimento? Muovi le braccia, le gambe e il collo, e controlla cosa senti.
Lui sollevò il braccio sinistro e dimenò le dita dentro la tuta. — Morituri te salutamus. Mi sento benissimo.
— Molto bene. Chi ti ha insegnato il latino? — Non appena l’ebbe detto, Charlene sentì un rossore partirle dal collo. Cosa avrebbe pensato JN? Charlene era l’unica persona all’Istituto alla quale piaceva condire i propri rapporti con conclusioni in latino. — Cinque chilometri — si affrettò ad annunciare. — Stiamo per cambiare scala.