Quando finalmente gli era stato consentito di chiudere le valigie e proseguire per la sua strada, il trasporto veloce per Christchurch era già partito. Si era trovato con un saltastagni a mach-uno che aveva trasformato un’ora di volo in una maratona di sei. Ad ogni fermata si era ripetuta l’ispezione ai documenti e al bagaglio.
Quando aveva raggiunto l’ultimo atterraggio, era arrabbiato, affamato ed esausto. Le formalità d’ingresso a Christchurch gli erano parse durare un’eternità, ma riconobbe che erano superficiali e frettolose al confronto di quelle di Aussieport: aveva l’impressione che gli fossero state fatte tutte le domande possibili al mondo, e le sue risposte erano state trasmesse alle banche dati centralizzate australiane.
Quando alla fine aveva raggiunto l’Istituto ed era stato introdotto nel grande ufficio di Judith Niles, era l’una di notte all’orologio interno del suo corpo, anche se l’ora locale indicava che non era ancora mezzogiorno. Aveva inghiottito uno stimolante, di un tipo in origine messo a punto proprio qui, nell’Istituto, e aveva esplorato intorno a sé gli affissi e gli infissi dell’ufficio.
Su una parete era appeso un grafico per il controllo delle ore di sonno personali, dello stesso tipo che utilizzava lui. Lei arrivava a una media di poco meno di sei ore per notte, oltre a un breve pisolino dopo il pranzo un giorno sì e uno no. Si era poi spostato verso gli scaffali dei libri. C’erano i titoli prevedibili: il libro di Dement e Oswald e Colquhoun sul sonno; il testo di Fisher-Koral sull’ibernazione dei mammiferi; le anamnesi di Williams sui sofferenti d’insonnia. Il corso accelerato che aveva ricevuto su PSS-One l’aveva obbligato a dare una scorsa a tutti, anche se la biblioteca che avevano lassù non era concepita per immagazzinare copie di carta come quelle.
La vecchia monografia di Brenner gli risultò nuova. Lavori mai pubblicati relativi ad esperimenti sul bulbo? Pareva improbabile: in quel campo Moruzzi aveva ripulito a fondo le ossa ancora negli anni Quaranta. Ma quel dorso rosso accanto ad esso, «Analisi Riveduta»?
Allungò una mano per toglierlo dallo scaffale, poi esitò. Non sarebbe stato bene partire con il piede sbagliato con Judith Niles: quell’incontro era importante. Meglio aspettare e chiederle il permesso.
Si sfregò gli occhi e girò le spalle alla libreria per guardare le immagini sulla parete opposta alla finestra. Era stato bene istruito, ma quanto più fosse riuscito ad apprendere grazie alle sue osservazioni personali, meno il suo lavoro sarebbe stato impossibile.
Su quella parete c’era un gran numero di fotografie incorniciate, fatte insieme a Presidenti, Primi Ministri e uomini d’affari. Al posto d’onore c’era l’immagine di un uomo dai capelli grigi con un grande mento e occhiali senz’orlo. Sul bordo, in basso, scritte a mano, c’erano le parole: Roger Morton Niles, 1921-1989. Il padre di Judith? Quasi certamente, ma quell’aggiunta di date all’immagine del padre aveva qualcosa di curiosamente impersonale. C’era una ben definita rassomiglianza di famiglia, soprattutto nello sguardo fermo e negli zigomi alti. Paragonò l’immagine di Roger Morton Niles con una fotografia, lì accanto, di Judith Niles, che stringeva la mano a un’anziana donna indiana.
Strano. Le descrizioni biografiche scritte non corrispondevano affatto alla persona che era passata come un turbine attraverso l’ufficio rivolgendogli il più breve e il più astratto dei saluti. E ancora meno corrispondeva all’immagine della donna che adesso era lì, davanti a lui. Basandosi sulla sua posizione e sui suoi successi, si era aspettato qualcuno sulla quarantina o sulla cinquantina. Ma Judith Niles non poteva avere più di trentacinque anni. Ed era anche carina. Il volto era appena d’una frazione troppo sottile, con occhi e fronte molto seri; ma questo era compensato da zigomi curvi nettamente modellati, una carnagione chiara, e una bellissima bocca. E c’era qualcosa nella sua espressione… oppure era soltanto la sua immaginazione? No, non aveva quell’espressione…
— Signor Gibbs? — La voce da dietro le spalle lo fece grugnire e girare di scatto. Sulla soglia della porta aperta era comparsa una segretaria, mentre lui stava sognando ad occhi aperti, aprendosi una via attraverso le fotografie alle pareti.
Grazie al cielo, non era ancora possibile leggere la mente. Come sarebbe parso ridicolo a un osservatore l’attuale filo dei suoi pensieri: si trovava là, arrivato in volo per un incontro confidenziale e altamente cruciale con il direttore dell’Istituto, e nel giro di due minuti la stava già valutando come un oggetto sessuale.
Si girò con un sorrisetto sul viso. La segretaria lo stava fissando con le sopracciglia sollevate. — Mi spiace averla fatta sussultare, signor Gibbs, ma l’incontro dello staff è finito e adesso il direttore può incontrarla. Ha suggerito che forse lei preferisce discutere durante il pranzo, piuttosto che incontrarsi qui. In questo modo lei avrà più tempo a disposizione.
Lui esitò. — La faccenda di cui devo parlare con il direttore…
— È privata? Sì, il direttore ha detto che capisce il bisogno di privacy. C’è una stanza tranquilla fuori della sala da pranzo principale. Sarete soltanto in due, lei e il direttore.
— Bene, mi faccia strada. — Cominciò a ripassare le sue argomentazioni mentre la segretaria lo precedeva lungo il corridoio cupo e sbiadito.
La stanza era tutto fuorché privata; poté vedere cento modi per piantarci dei microfoni-spia. Ma quanto meno offriva un isolamento superficiale dalle altre orecchie. Avrebbe dovuto correre il rischio. Se qualcuno avesse registrato il loro colloquio, l’avrebbe fatto certamente a beneficio della stessa Judith Niles, e la cosa non sarebbe arrivata oltre. Quando entrò sbatté le palpebre. Le luci del soffitto, come ogni altra luce che aveva visto all’interno dell’Istituto, era d’un chiarore sopraffacente. Se l’oscurità era l’alleata del sonno, Judith Niles di sicuro non tollerava la sua presenza.
Lo stava aspettando seduta a un lungo tavolo, aggiungendo con calma dati a un elenco di produzione. Non appena lui si sedette, lei ripiegò il foglio e parlò senza perdere neanche un istante per i convenevoli.
— Mi sono presa la libertà di ordinare per tutti e due. C’è una scelta limitata e ho pensato che avremmo potuto far fruttare meglio il tempo. — Si appoggiò allo schienale e sorrise. — Ho un mio ordine del giorno, ma dal momento che lei è venuto a trovarci, credo che abbia diritto al primo colpo.
— Colpo? — Tirò la propria sedia più vicina al tavolo. — Lei ha frainteso le nostre motivazioni, ma mi farà piacere parlare per primo. E mi permetta di sgomberare il terreno da qualcosa che potrebbe risparmiarci qualche imbarazzo più avanti. Mio cugino, Wolfgang, lavora per voi qui all’Istituto.
— Mi ero chiesta, appunto, se il cognome fosse una pura coincidenza…
Facendolo seguire da un controllo a fondo su noi due? pensò Hans Gibbs. Annuì e proseguì: — Wolfgang è completamente fedele, proprio come io lavoro per Salter Wherry e gli sono fedele. Presumo che lei non l’abbia mai incontrato?
Judith Niles sollevò lo sguardo su di lui da sotto le sopracciglia abbassate. — Non conosco nessuno che l’abbia incontrato, ma tutti hanno sentito parlare di lui, e della Stazione Salter.
— Allora lei saprà che dispone di consistenti risorse. Grazie ad esse, noi possiamo scoprire parecchio sull’Istituto, e sul lavoro che viene svolto quaggiù. Voglio che lei sappia che, anche se Wolfgang ed io abbiamo parlato in generale, di tanto in tanto, del lavoro che si svolge quaggiù, nessuna delle mie informazioni specifiche, o quelle di chiunque altro nella nostra organizzazione, sono venute da lui.
Lei scrollò le spalle senza pronunciarsi. — D’accordo. Ma adesso mi ha incuriosito. Cosa crede di sapere su di noi di così sorprendente? Siamo un’agenzia sovvenzionata dal denaro pubblico. Le informazioni contenute nei nostri archivi sono aperte a tutti.