Elissa mostrò il più vivo stupore. — Vuol dire che non c’è più nessun paesaggio naturale in nessun punto della Terra?
— No — rispose la voce. Peron immaginò di percepire un elemento di sorpresa nella dominante giovialità dei toni della cabina. — Ci sono paesaggi naturali, in abbondanza. Ma non ci sono città o villaggi sulla Terra.
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
La marcia costante dei ghiacciai era stata più efficace nell’emisfero settentrionale. In Africa, Australia e Sudamerica, i grandi oceani avevano temperature moderate, e ne frenavano la diffusione dalle regioni polari. Si potevano trovare delle sacche prive di neve fino a quaranta gradi a sud dell’equatore. Ma a nord i ghiacciai dominavano dovunque oltre la latitudine trentacinque.
Perfino a Skydown la temperatura era gelida. Peron ed Elissa emersero dalla cabina ai piedi del Gambo in un cielo limpido e con un sole sfavillante, ma si trovarono in mezzo ad un furioso vento di levante che incoraggiava ad avvolgersi in più strati d’indumenti caldi. Mentre la maggior parte dei visitatori andò ad ascoltare un discorso illustrativo sui luoghi da visitare sulla terra, Peron ed Elissa presero un’aviomacchina e volarono verso nord.
Passarono la prima sera sulla lussureggiante sponda del Mediterraneo, vicino all’antico sito di Tripoli. Il servizio d’informazione del computer li informò che avevano raggiunto il confine del territorio dove esisteva ancora una vera foresta. Più a nord, in quella che un tempo era stata l’Europa, sopravvivevano soltanto macchie rachitiche di abeti rossi e ginepri, abbarbicati ai pendii rivolti a sud.
La notte arrivò in fretta, calando fulminea con la sua odorosa oscurità sulla bianca riva sabbiosa. L’aviomacchina conteneva due cuccette, ma erano sui lati opposti della cabina. Peron ed Elissa scelsero di dormire all’aperto, protetti dai sensori automatici e dal sistema di allarme della macchina, tenendosi stretti sotto un cielo senza luna, osservando il lento ruotare delle costellazioni ignote. Contro quel fondale in lento movimento, le stazioni spaziali scorrevano in continuazione sopra le loro teste, con una o più di esse sempre visibili. Il sonno non volle venire facilmente. Bisbigliarono a lungo di Pentecoste, del Planetfest, e di Whirlygig, e dell’incidente capitato a Peron che li aveva proiettati attraverso gli anni-luce e i secoli.
La notte era piena di rumori sconosciuti. C’era il vento che frusciava fra gli alti alberi, e il costante battito delle onde sulla sponda del mare. Da qualche parte, a sud, un gruppo di animali si lanciava reciproci richiami, come quelle di esseri umani che singhiozzassero e piangessero in una lingua straniera. Infine, quando Peron si addormentò, i sogni furono sgradevoli. Le voci continuarono a chiamarlo nella notte; ma adesso lui immaginava di capire il loro lamentoso messaggio.
La vostra visita sulla Terra è un’illusione. Vi state nascondendo la verità, cercate di rimandare delle azioni spiacevoli. Ma non possono venir accantonate. Dovete tornare nell’S-Spazio… e andare più lontani ancora.
Il mattino seguente ripresero il volo, puntando a nord e a est e inoltrandosi nel continente asiatico. Due giorni di viaggio convinsero Peron ed Elissa di due cose. A parte la collocazione generale delle masse continentali, la Terra non aveva nessuna somiglianza col favoloso pianeta descritto negli antichi documenti di Pentecoste e da quelli della biblioteca a bordo della nave. E non c’era nessuna possibilità che scegliessero di vivere sulla Terra, anche se fosse stata nuovamente colonizzata in un prossimo futuro. Pentecoste era più bello sotto ogni aspetto.
Lasciarono il servizio informazioni acceso per tutto il tempo. Così poterono ascoltare una descrizione che metteva a confronto l’antica e fertile Terra della leggenda e l’attuale desolazione.
L’inverno postnucleare era stato la prima causa del problema. Come agente del cambiamento, aveva avuto un’influenza ben maggiore dell’era glaciale che adesso serrava la Terra nella sua morsa gelida. Immediatamente dopo le esplosioni termonucleari, le temperature sotto le dense nubi della polvere radioattiva erano scese in modo drastico. Le piante e gli animali che avevano combattuto per la sopravvivenza nell’oscurità senza sole della superficie l’avevano fatto in un ambiente avvelenato che li aveva costretti a rapide mutazioni o all’estinzione.
Gli uccelli non avevano potuto trovare cibo sufficiente al suolo. Le poche specie sopravvissute avevano sorvolato a volo radente la superficie dei mari tropicali, contendendo ai mammiferi marini la ridotta disponibilità di pesce. L’alto fabbisogno di energia li aveva sterminati. L’ultimo uccello volante sulla Terra era caduto dal cielo nel giro di due anni dall’esplosione termonucleare che aveva cancellato Washington. Soltanto i pinguini erano sopravvissuti, migrando verso nord dall’Antartico per andare ad abitare le linee costiere del Sudamerica e dell’Africa. Piccole colonie di pinguini imperatori erano ancora abbarbicate alle sponde del Mare di Giava e dell’Indonesia.
Gli animali di superficie più grandi, compresi tutti gli esemplari sopravvissuti dell’homo sapiens, erano stati le prime vittime. Il loro più lungo arco di vita aveva permesso l’accumulo di dosi letali di radiazioni nei tessuti dei loro corpi. I piccoli roditori, spintisi nelle profondità del sottosuolo per vivere di radici e di tuberi, se l’erano cavata molto meglio.
Una circostanza aveva contribuito alla loro sopravvivenza. L’ora dell’Armageddon era giunta in prossimità del solstizio d’inverno, nell’emisfero settentrionale, in un periodo in cui molti animali erano grassi per l’inverno e si stavano preparando per l’ibernazione. Avevano scavato le loro tane ancora più in profondità e si erano sistemati per il sonno dell’ibernazione. Quelli troppo a nord non si erano mai più svegliati. Altri, tornando alla vita cosciente durante una primavera fredda e buia, avevano cercato cibo in lungo e in largo. Quelli fortunati si erano trasferiti sempre più a sud, in una zona in cui la luce solare pallida e malata permetteva ancora la crescita di alcune piante. Di tutti i mammiferi che abitavano la terraferma, soltanto pochi roditori, topi, criceti, scoiattoli terricoli e marmotte, erano sopravvissuti per ereditare la Terra.
I loro contendenti erano stati formidabili. Gli invertebrati combattevano per la propria sopravvivenza. Dapprima gli insetti erano diminuiti, poi si erano adattati, ed erano mutati, cresciuti, e si erano moltiplicati. Avevano sempre dominato le regioni tropicali della Terra; adesso le formiche e i ragni più grandi, aiutati da formidabili mandibole e pungiglioni, lottavano per diventare i signori della creazione.
I mammiferi avevano scelto gli unici sentieri rimasti liberi per loro. Gli invertebrati erano limitati nelle dimensioni massime a causa del loro meccanismo repiratorio passivo e della loro mancanza di uno scheletro interno, ed erano a sangue freddo. I roditori erano cresciuti di dimensioni per migliorare la loro conservazione del calore, sviluppando folte pellicce e zampe pelose, ed erano migrati lontano dall’equatore, verso regioni in cui non c’era la concorrenza degli insetti. Alcuni di loro erano del tutto vegetariani: brucavano la scarsa vita vegetale clorotica che ancora cresceva alla luce crepuscolare filtrata dalla polvere. Avevano sviluppato spessi strati di grasso sia come isolante che per immagazzinare il cibo. Gli altri sopravvissuti erano diventati predatori superefficienti, cibandosi dei loro parenti erbivori.
A mano a mano che l’inverno nucleare si era lentamente dissolto, gli insetti si erano trasferiti di nuovo a nord e a sud, lontano dai tropici. Ma i topi e le marmotte erano pronti ad accoglierli. Erano aumentati di dimensioni e di ferocia, fino a diventare equivalenti ai lupi pre-civiltà; e adesso avevano folte pellicce e grasso protettivo che rendevano impotenti le fameliche mandibole e i pungiglioni velenosi. Gli insetti erano una nuova e conveniente fonte di proteine. I carnivori li seguirono fin negli habitat dei tropici, proseguendo poi verso le regioni equatoriali.