Dall’interrogatorio dell’inserviente e della cammarera risultò che quest’ultima, verso le ventidue, aveva visto la signora Spoto uscire dalla cabina, chiudere a chiave la porta e, prima d’allontanarsi, farlela solita raccomandazione.
«Solita? E quale?»
«Se sente piangere la bambina, mi venga a chiamare. Sarò sul ponte B.»
«E lei l’ha sentita, stasera?»
«Stasera no, ma ieri sì. E sono andata ad avvertire la signora che è venuta subito.»
«Non ha notato niente di sospetto?»
La cammarera ebbe un attimo d’esitazione, poi parlò decisa.
«Commissario, quando la signora non ha trovato la bambina, è venuta a cercarmi, sconvolta. Mi ha domandato se qualcuno era entrato in sua assenza nella cabina e io ho risposto di no, ed era la verità. Quindi non ci sono che due sole persone sospettabili: io e lo steward. E noi due le giuriamo che non siamo stati noi a rapire la piccola.»
Oltre ad essere onesta, la faccia della cammarera era quella di una fimmina intelligente. Tornò il triestino, alla signora avevano dato un sedativo, dormiva. Cecè Collura si fece accompagnare alla cabina della signora Spoto dalla cammarera che raprì la porta col passepartout, la signora si era portata appresso la chiave.
«Chi ci sta alla 37?»
«I signori Duclos, sono francesi, devono essere sposini.»
«E alla 39?»
«È vuota, l’occuperanno al prossimo scalo.»
La cabina, in disordine, portava i segni della disperata ricerca della signora Spoto. C’era un passegino e tutto quello che poteva servire a una picciliddra di tre mesi, biberon, poppatoi, pannolini. Nel frigobar, tra l’altro, due scatole di latte, una era aperta.
«A voi risulta che la bambina stesse bene in salute?»
«A quanto pare, sì. Finora non aveva avuto bisogno del pediatra di bordo. Noi però non l’abbiamo mai vista.»
«Che significa?» – spiò Cecè sorpreso.
«Quando noi entravamo per rifare il letto e pulire la stanza, la signora era già pronta con la bambina in braccio o in passeggino e andava in corridoio ad aspettare che avessimo finito. Era molto gelosa della bambina, nessuno la doveva toccare. La teneva sempre coperta, diceva che si raffreddava facilmente.»
«Va bene, torni alle sue occupazioni. E non faccia parola con nessuno di quello che sta succedendo.»
Rimasto solo, Cecè Collura sentì accentuarsi il disagio che aveva avvertito trasendo in cabina. Raprì un album di fotografie che stava posato sul comodino. Ritraevano la stessa picciliddra, da quando aveva pochi giorni fino a tre mesi. Solamente in due otre c’era macari la mamma, il padre invece non compariva mai. L’ultima foto dell’album ritraeva la signora Spoto, un primo piano. Era come Collura l’aveva vista poco prima nell’ufficio del commissariato, due solchi profondi ai lati della bocca, gli occhi non gonfi di pianto ma spenti. Quanto diversa dalla giovane donna che sorrideva felice con la sua bambina nelle altre fotografie! Tuppiarono leggermente alla porta. Sulla soglia c’erano la cammarera e una giovane coppia.
«I signori Duclos» – li presentò la cammarera.
«Abbiamo sentito del rumore» – fece il signor Duclos in un italiano misto di francese – «Io e ma femme abbiamo pensato che la petite…»
«Sta bene, la petite» – mentì Collura – «O meglio, ha avuto solo un piccolo disturbo da bambini. È in infermeria con la mamma.»
«Meglio così» – fece la signora Duclos – «Io e mio marito ci siamo affezionati. Di tanto in tanto la sentivamo piangere, le pareti sono così sottili.»
Se ne andarono. Collura s’assittò sul letto e ripigliò in mano l’album di fotografie. Tutto a un tratto gli lampo un’idea che gli aggelò la spina dorsale. Dal telefono della cabina chiamò l’infermeria, la signora riposava ancora. «Ha con sé la borsetta? Sì? Fammela avere subito in ufficio.»
Suonò per la cameriera e quella si precipitò.
«Rimetta in ordine la cabina. E sul letto sistemi due cuscini, sa, come si fa per evitare che i bambini cadano.»
Quando arrivò in ufficio, la borsetta della signora Spoto era già sulla sua scrivania. La raprì. E dintra vitrovò quello che si aspettava, ma invece di provarne soddisfazione sentì una fitta di malinconia pungergli il cuore. Un minuscolo registratore, due cassette. Mise la prima. Solo il fruscio d’una registrazione d’ambiente, senza una voce o un rumore. Stoppò, riavvolse il nastro, lo fece scorrere avanti veloce. Appena sentì un suono, mandò il nastro a velocità normale. E subito, alto, chiaro, risuonò nell’ufficio il pianto della bambina scomparsa.
«Ha trovato la piccola?» – spiò Premuda trasendo di corsa, un sorriso felice sulla faccia.
«Sì, è qui dentro» – fece Collura indicando il registratore.
«Dio mio! Perché?» – spiò il vice sbiancando.
«Mi chiami il marito, a Genova, subito.»
Appena seppe che sua moglie si trovava sulla nave, il signor Spoto scoppiò a piangere. Erano giorni che la cercava dovunque, era sparita da casa approfittando della sua assenza e di una momentanea distrazione dell’infermiera che l’assisteva. Laura aveva perso la bambina cinque anni avanti, a tre mesi. Ne aveva avuto un tracollo e da allora non si era più ripresa. Cliniche, cure, tutto inutile.
Si era fissata che la bambina non era morta, era lui, il marito, a sottrargliela e per questo ogni tanto scappava da casa stringendo al petto una bambola.
«La venga a prendere al prossimo scalo» – disse il commissario. E poi, rivolto a Premuda che aveva sentito tutto e appariva disfatto:
«Coraggio, torniamo in cabina.»
Dopo un’ora di ricerche, trovarono la bambola in un’intercapedine darrè il lavabo. Con delicatezza, come se fosse stata una picciliddra vera, Cecè Collura la depose sul letto tra i due cuscini.
«E ora che facciamo?» – spiò il vice.
«Io vado a trovare la signora Spoto. Lei aspetti qui una mezz’oretta, poi metta in moto il registratore e sparisca. Prima del pianto della bambina ci sono almeno venti minuti di silenzio.
«Basteranno. La signora sarà pazza, ma in certe cose ragiona perfettamente. Quando usciva dalla cabina, metteva in moto il registratore che a un certo momento faceva sentire il pianto. La cameriera allora correva sul ponte a chiamare la signora. E tutto pareva vero.»
La signora Spoto si era appena svegliata, quando vide il commissario lo taliò ansiosa. Cecè fece una faccia trionfante. «Ho una bellissima notizia, signora! Abbiamo ritrovato la sua bambina!»
La signora Spoto saltò dal lettino, gli occhi sparluccicanti di gioia, si mise le scarpe, il commissario le offrì il braccio. Appena imboccarono il corridoio dove c’era la cabina 38, il pianto della bambina si udì benissimo.
«Irene!» – gridò la signora e si mise a correre verso la sua illusione.
Cecè non ebbe la forza di spiarsi se quella crociera era vera o virtuale.
La scomparsa della vedova inconsolabile
A pensarci bene, chi sono i crocieristi? Sono gli abitanti di un piccolo paese provvisorio e in movimento. Passati sì e no tre giorni di navigazione, tutti conoscono vita, morte e miracoli di tutti, vizi privati e pubbliche virtù. E comincia quel cucirsi i panni addosso che, dalle parti di Cecè Collura, è chiamato “sparlatina”. Il napoletano amico di Premuda era poi uno specialista nella finissima arte dell’affibbiare nomignoli: il commendator Gaudenzio Pirolli, calvo, grassissimo, gambette invisibili, divenne subito “rolling stone”; la noiosissima signora Tarantino, che quando t’attaccava discorso non la finiva più, la “mosca cavallina”. E via di questo passo. La signora Gemma Ardigò venne invece soprannominata la “vedova inconsolabile”. Va detto subito che il marito della vedova, Mario Vittorio Ardigò, luminare della chirurgia cardiovascolare, era vivo e, relativamente al fatto di essere sittantino, macari vegeto. Allora perché chiamare vedova inconsolabile la signora Gemma? Perché non solo vestiva sempre di nero, ma era perennemente malinconica e diffondeva intorno a sé una mestizia quasi palpabile. Era una trentacinquina di gran classe, ma uno la doveva taliare a lungo prima di rendersi conto che era di sorprendente bellezza. Però nessun mascolo in cerca d’avventura aveva mai osato avvicinarsi a lei durante la crociera e del resto la signora non dava confidenza a nessuno. Tra i paesani, pardon, tra i crocieristi si era diffusa la voce che la signora Ardigò fosse reduce da una grave crisi depressiva le cui cause erano ignote. A convincerla a fare quella crociera, dicevano i soliti beneinformati, era stato il marito luminare non tanto per finalità terapeutiche quanto piuttosto per avere tanticchia di sollievo dall’atmosfera da due novembre che trovava a casa quando tornava stanco dal lavoro. «Le cose non stanno così» – era intervenuto il commendator De Cristofaris – «Io lo conosco benissimo l’esimio professor Ardigò. Ha due segretarie giovanissime e prosperose che indossano minigonne cervicali e con le quali se la spassa. Ma è gelosissimo della moglie, quando torna a casa le fa scenate, la tratta peggio di uno schiavista, se non tiene la povera signora Gemma legata con una corda alla caviglia, poco ci manca.»