«Dove dorme?»
«Mah, mi pare in una cabina a quattro, con gli altri cantanti.»
С’era qualcosa che non quatrava. E non quatrava soprattutto l’atteggiamento del suo vice, tra l’evasivo e l’imbarazzato. Decise di non parlare col triestino dei suoi dubbi. La sera, dopo la cena, fu lui stesso a proporre alla signora Agata di tornare a sentire il cantante. S’ingollò il repertorio di Bolton fino alla mezzanotte passata, quando la signora Masseroni in McGivern già da tempo aveva raggiunto il petrolifero letto coniugale. Seguì discretamente Joe Bolton al bar, dove il cantante si scolò due whisky propiziatori al sonno, lo seguì ancora mentre quello imboccava il corridoio delle cabine extralusso. Lo vide aprire la porta con la chiave, entrare, richiudere. Rimase ammammaloccuto.
Possibile che Bolton avesse tanto denaro da potersi concedere una cabina di quel tipo? No, с’era un’altra spiegazione: certamente lì ci stava una qualche ricca signora alla quale il cantante concedeva i suoi favori. L’indomani, a primo mattino, trasì nel suo ufficio, il vice non era ancora arrivato, e spiò all’addetto di guardia:
«Chi occupa la cabina numero 10?»
L’addetto consultò il computer.
«Nessuno. Risulta vuota.»
Eh, no. Non gliela stavano contando giusta. E ora veniva fora che Joe Bolton poteva contare su coperture e complicità. In quel momento trasì in ufficio il triestino.
«Le devo parlare. Da solo» – fece brusco Cecè.
Andarono nel retroufficio.
«Ora lei mi dice tutto su Joe Bolton. E cerchi di non pigliarmi in giro, l’ha già fatto abbastanza.»
Il vice diventò rosso.
«Mi perdoni, commissario, Lei ha ragione. Ma ho avuto ordini precisi. Nessuno poteva pensare che il suo fiuto di poliziotto l’avrebbe fatta sospettare.»
«Di che?»
«Ne parli col comandante, se crede.»
«Certo che gli parlo!» – s’infuriò Cecè, agguantando la cornetta del telefono interno.
Appena sentì il nome di Joe Bolton, il comandante disse a Cecè di salire immediatamente sul ponte comando.
«Questo Bolton, che in realtà si chiama Brambilla…» – esordì fora della grazia di Dio.
«Chiamarsi Brambilla non è un reato, le pare?» – l’aggelò placido il comandante.
«Non sarà un reato, ma francamente lui è un tipo equivoco. Lo sa? Porta parrucca, lenti a contatto e baffi finti. Si è truccato perché non vuole farsi riconoscere, sicuramente ha qualcosa da nascondere.»
«È vero. Guardi, commissario, potrei dirle che tutto è in ordine e che della faccenda rispondo io. Tanto il signor Bolton è previsto sbarchi al prossimo scalo. Ma voglio rendere omaggio al suo sguardo acuto. Lo sa chi si cela dietro al nome di Brambilla?»
«Perché, macari quello è falso?» – spiò allibito Cecè.
«Sì, lo è. Il vero nome di Bolton–Brambilla è…»
Lo fece, il nome. E Cecè Collura sbiancò.
«Ma come?» – balbettò appena si fu ripreso –. «Un miliardario! Uno come lui! Uno che è stato Presidente del…»
Il comandante isò una mano a interromperlo.
«Lei lo sa quali sono stati i suoi inizi? Cantava, come adesso, sulle navi da crociera. Ha voluto ritrovare un pochino della sua giovinezza. Vogliamo condannarlo per questo?»
Cecè allargò le braccia, salutò, niscì. Ma subito fora dalla cabina del comandante l’attraversò un pensiero. Lui era un finto commissario di bordo. Joe Bolton era un finto cantante. Quanti altri “finti” c’erano a bordo? E quella crociera era vera o virtuale?
Il fantasma nella cabina
Dopo appena una simana di navigazione, Cecè Collura non ne poteva più del giornalista freelance Davide Birolli il quale, va a sapere perché, gli si era attaccato peggio di una sanguetta, tanto che c’era stato un momento nel quale il commissario di bordo era stato tentato di mollare tutto e di farsi sbarcare al primo scalo.
Questo Birolli, trentino, occhi spiritati darrè gli occhialetti, capelli perennemente percorsi da una corrente elettrica a 350 volts, era stato ingaggiato dalla società armatrice della nave (vitto e alloggio gratis, cospicuo assegno finale) perché scrivesse una serie d’articoli di costume a tutto vantaggio dell’idea che andarsene a spasso per il mare fosse il massimo di benessere che uno potesse permettersi. Senonché la società armatrice non si era informata bene su come la pensava il giornalista il quale, appena messo piede sulla nave, si era proclamato, a dritta e a mancina, omo e pensatore della sinistra più irriducibile. Fortemente critico verso il concetto stesso di crociera, che lui definiva «un viaggio immobile» e a volte macari «un viaggio parassitario fatto da parassiti», andava a trovare Cecè Collura nel suo ufficio e ci stava tutta la santa giornata.
«Non trova anche lei, commissario, che queste crociere siano terribilmente reazionarie?»
«In che senso, scusi?»
«Nel senso che in ogni crociera quello che succede è tutto risaputo, rimasticato, combinatorio. L’immaginario viene ammazzato da una sorta di rimbambimento collettivo. È sempre la stessa pappa.»
“Pappa che tu ti sbafi” – pensò Cecè Collura – “senza guadagnartela: ancora non hai scritto un rigo.”
«L’innocuo, il rassicurante, sono reazionari perché non producono dubbi.»
«Ha presente il Titanic?» – gli spiò Collura che si era scassatolo scassabile.
«Sì. Ebbè?»
«Quella, a suo parere, è stata invece una crociera progressista?»
L’altro s’imparpagliò un momento e il commissario ne approfittò per mettersi a parlare col suo vice.
Una notte lo squillo penetrante del telefono l’arrisbigliò.
Accese la luce, taliò il ralogio: le quattro del mattino. Era il suo vice.
«Commissario, può venire in ufficio? C’è un’emergenza.»
Il vice non era persona di chiacchiera, voleva dire che la cosa era seria.
In ufficio ci stava una signora anziana che indossava una vestaglia di gran classe e pareva molto agitata.
«Mi permette, commissario?» – fece il triestino.
Andarono nel retroufficio, dove i passeggeri non erano ammessi e che era attrezzato con telefoni satellitari, computers vari e Internet.
«La signora sostiene d’aver visto un fantasma.»
«Dove?»
«Nella sua cabina. Stava dormendo, s’è svegliata e l’ha visto. È schizzata via dal letto.»
«Aveva bevuto?»
«Pare di no, dice d’essere astemia.»
«Si droga?»
«Alla sua età?!»
«Carissimo, non si è reso conto che i vecchi oggi fanno di tutto per non parere tali? Ma insomma, che vuole?»
«Vuole cambiare cabina.»
«Va bene, trasferiamola e facciamola finita.»
«Non è così semplice, commissario. La signora era terrorizzata, scappando si è messa a urlare, ha percorso avanti e indietro il corridoio prima d’essere fermata da una cameriera. Altri passeggeri si sono svegliati, si sono riversati nel corridoio… C’era anche quel giornalista, purtroppo. Ho dovuto faticare per far tornare la calma. Bisognerebbe inventarsi qualcosa per tranquillizzarli.
«Altrimenti domani tutti quelli che occupano le cabine del corridoio 22c vorranno cambiare posto.»
«Andiamo a parlare con questa vecchia pazza. Prima però mi faccia vedere la sua scheda.»
Risultò che la signora, anzi signorina, Candida Meneghetti era una pensionata di 77 anni, residente a Bologna. Viaggiava sola.
«Signorina Meneghetti» – esordì il commissario che non sapeva né come principiare né come finire il discorso – «si sente bene?»
«Mi sentivo benissimo prima di mettere piede su questa maledetta nave. Ho preso uno spavento tale che a momenti ci restavo secca.»