Cecè non lo stava più a sentire, sapeva benissimo chi fosse la picciotta che aveva un posto d’onore al tavolo del comandante.
Figlia di un industriale tra i più noti, compariva spesso sui rotocalchi, da sola o in compagnia della sorella Giulia.
Il poviro Premuda era capitato proprio male: se era innamorato per davvero, si rendeva macari conto che la picciotta non era cosa da mettersi seriamente con un vice commissario di bordo. Una storia da crociera, senza importanza, questo forse sì, ma destinata a finire al termine della navigazione.
Il matino appresso, trasendo nel suo ufficio, la prima cosa che Cecè fece fu quella di taliàre attentamente il vice. Aveva una faccia bella sirena, ai passeggeri sorrideva affabile, era disponibile come sempre. Forse tra Anna e Scipio c’era stata il giorno avanti un’azzuffatina, poi dovevano aver fatto la pace.
Cecè se ne rallegrò: in primisi perché lui non era capace di dare adenzia ai crocieristi come invece lo era Premuda; in secundisi perché al triestino ci si era tanticchia affezionato.
Il terzo giorno da quando era principiata la facenna, il barometro personale di Scipio Premuda segnò di bel nuovo nuovamente tempesta. Durante la nottata passata non doveva avere chiuso occhio e, fatto assolutamente inaudito, si era rasato malamente. Nelle giornate normali, la sua faccia era liscia come una palla di bigliardo e Cecè Collura, che pativa di un pelo duro e fitto, lo invidiava. A mezza matinata il vice non ce la fece a reggere.
«Le chiedo perdono, commissario, ma non mi sento bene.»
«Vada pure. Ah, si faccia dare un’occhiata dal dottore.»
«Signorsì.»
Collura però era sicuro che Premuda non si sarebbe fatto vedere in infermeria, la sua malatia non era curabile con medicinali.
Taliò il napoletano amico di Premuda e questi gli ricambiò l’occhiata, chiaramente preoccupato.
«Commissà, dovete fare qualcosa. Quello, il signor Premuda, sta uscendo pazzo.»
Già, ma fare che cosa? La sera, durante la cena, non staccò gli occhi da Anna che se ne stava a chiacchiariare, sempre sorridente, con il comandante e con gli altri commensali, tutte persone importanti. Non pareva per niente risentire dell’azzuffatina che aveva avuta con Scipio. Il quale Scipio, verso la fine della cena, comparse per un momento sulla porta del ristorante. Pareva uno nisciuto da una foresta vergine nella quale si era sperso da una mesata. Anna lo vide e di subito gli occhi le si fecero più sparluccicanti, la parlantina più animata. Trovò macari il momento giusto per rivolgere a Scipio un rapidissimo sorriso. A quel sorriso il triestino chiaramente strammò, poi sorrise a sua volta e scomparì. Evidentemente era corso a mettersi in ordine, pieno di felicità.
La matina del giorno appresso Scipio Premuda era così contento da non rendersi conto di canticchiare mentre stava in ufficio. Poi venne l’ora di andare a pranzo, ma dovettero tardare tanticchia.
Premuda trasì nel ristorante con Cecè che già tutti stavano mangiando. Appena Anna vide Scipio il sorriso le si aggelò sulle labbra, lanciò al triestino una taliata irritata e sdegnosa, fece persino un evidente gesto di fastidio, parse avesse voluto scacciare una mosca. Premuda, di subito giamo, pareva un morto, variò avanti e narrè, s’afferrò a un tavolino per non cadere.
Fece fatica a parlare.
«Non… non ho appetito. Mi scusi.»
E sinni niscì dal ristorante camminando quasi che ci fosse mare forte. Al commissario stavolta il suo vice fece veramente pena. Che gioco crudele aveva deciso di fare quella picciotta? Il denaro, perché ricchissima lo era, e la bellezza, perché bellissima lo era, non l’autorizzavano a tanta cattiveria. E da quel momento Cecè Collura pigliò a taliarla non come un omo qualsiasi talia una bella fimmina, ma con la puntuta attenzione di uno sbirro che vuole scoprire quello che in realtà si nasconde darrè un paro d’occhi azzurri che paiono chiari e innocenti, darrè un sorriso che pare sincero come quello di una picciliddra appena nata. La taliò talmente che a un certo momento la picciotta si sentì osservata e lo taliò a sua volta. Cecè non distolse lo sguardo, fu Anna a calare gli occhi per prima. Nel dopopranzo, il vice non si fece vedere in ufficio, il napoletano gli riferì che Premuda si era fatto dare dal medico un forte sonnifero. Stava andando alla deriva, poviro triestino. A cena, Cecè Collura notò una cosa che gli parse curiosa: Anna, di tanto in tanto, lanciava una taliata rapida verso la porta, quasi s’aspettasse di veder comparire qualcuno. Che non poteva essere altri che Premuda. Alla fine della cena, l’umore della picciotta era cangiato, macari lei pareva diventata nirbusa e insofferente. Il commissario quella sera si ritirò presto nella sua cabina per poter ragionare in pace sulla faccenda che gli pareva stramma assai. A un certo momento pigliò la decisione d’andare a parlare a core aperto col suo vice.
Lo trovò appena arrisbigliato dalla lunga dormita artificiale, intordonuto e senza difese. Vigliaccamente, Cecè ne approfittò e attaccò senza mezze parole. «Voglio sapere tutto. Se vuole, lo può considerare un ordine.» E Scipio Premuda parlò, forse non aspettava altro che potersi confidare con qualcuno. Con Anna Zirelli era stato un colpo di fulmine, non gli era mai capitato prima nella vita. E macari Anna diceva d’essersi innamorata di lui, solo che il suo atteggiamento appariva spesso del tutto illogico, una sera era dolcissima, tenera, e il giorno appresso dura, scontrosa, non voleva rivolgergli manco la parola. E questo senza un motivo apparente. Non c’era purtroppo che una sola spiegazione, concluse distrutto il triestino: Anna era affetta da una qualche malattia che le procurava un grave scompenso psicologico.
«Non credo proprio che si tratti di una malattia» – disse il commissario.
«Ah, no? Quindi si diverte con me, vuole ridere alle mie spalle!»
«Non si tratta nemmeno di questo, almeno credo.»
«Allora perché mi tratta così? Me lo dica, per carità, se lo sa.»
«Ma dia ventiquattr’ore» – fece Cecè Collura – Ma mi deve dare la sua parola d’onoreche per tutto il tempo che mi necessita lei se ne starà chiùso in cabina senza vedere nessuno. Faccio spargere la voce che è malato.»
Ventiquattr’ore stavano a significare un pranzo e una cena. E Cecè Collura fu puntualissimo tanto a pranzo quanto a cena. Poi andò a parlare col cameriere che serviva al tavolo del comandante, il quale aveva notato la stessa cosa che aveva attirato l’attenzione del commissario. Le parole del cameriere rinforzarono l’idea che si era fatta di tutta la facenna. Un’idea che poteva parere pazzesca, ma che a ben considerare le cose non lo era poi tanto. Andò a fare quattro passi sul ponte A e la vide, Anna Zirelli, che se ne stava sola, i gomiti appoggiati alla ringhiera, a taliare il mare. Molto triste, ogni tanto volgeva lo sguardo torno torno, manon vedeva la persona che tanto desiderava veder apparire nello scuro. Cecè Collura capì che quello era il momento giusto per dare la botta finale.
«Mi perdoni, signorina Zirelli, se la disturbo. Io sono…»
«… il commissario di bordo. So tutto di lei, so che è un poliziotto il quale…»
«Scipio le ha detto di me?» – l’interruppe Cecè.
«Sì. E mi ha detto che lei è uno sbirro molto intelligente e pericoloso.»
«Pericoloso per chi ha qualcosa da nascondere.
Come lei. Allora, mi dice quello che ho già intuito o faccio perquisire la sua cabina? Scelga lei.»
«E che spera di trovare nella mia cabina di così importante?»
«Io non spero di trovare, so con certezza chi vi troverò. Sua sorella Giulia, la sua quasi gemella.»
Anna Zirelli tirò un sospiro profondo, parse sollevata.
«Come ha fatto a capire?»
«Avete gusti diversi, non solo in fatto di uomini. Giulia, per esempio, è allergica alle pesche, mentre lei ne è ghiotta. Una volta che Giulia, costretta dalle circostanze, ha dovuto mangiarne una, è stata costretta a correre dal medico di bordo. Perché avete messo su questa storia? Non certo per risparmiare, i soldi non vi mancano.»