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L’escluse decisamente, a pelle, a fiuto, a intuito di sbirro. Non c’erano che due soluzioni possibili che ambedue escludevano il delitto: un macabro scherzo ai danni della signora Firmiani oppure la signora era leggermente fora di testa e vedeva cose non c’erano. La seconda soluzione era plausibile: i crocieristi, prima d’essere ammessi abordo, non passano visite mediche o psichiatriche.

Tornò in infermeria e, senza farsi vedere dalla signora, chiamò sparte il medico.

«Senta, a suo parere, la signora può avere avuto le traveggole?»

«In che senso, scusi?»

«Nel senso che ha creduto d’aver visto un cadavere che in realtà non c’era.»

«Tutto è possibile, commissario, ma non credo sia il caso della signora Firmiani. È molto malata, questo sì, ma le cure alle quali si è sottoposta, gli interventi…»

«Ma di che sta parlando, dottore?»

«La signora Firmiani è gravemente malata di cuore. Le hanno applicato tre by-pass. Mi meraviglio che, con un’emozione così, non ci sia rimasta sul colpo.»

Un campanello, da qualche parte, principiò a suonare fastidiosamente. Il medico taliò interrogativo il commissario, d’improvviso l’aveva visto astrarsi.

«Cos’è questo campanello?» – spiò Cecè.

«Quale campanello?» – fece a sua volta il medico che non sentiva niente. Quel commissario era proprio un tipo strano.

Cecè non rispose, aveva capito che il campanello sonava dintra alla sua testa.

«Devo fare qualche domanda alla signora.»

«Va bene, ma non la stanchi.»

«Ha visto il cadavere? Chi è stato ad assassinarla? L’ha scoperto?»

«Non dubiti che arriverò alla verità» – rispose Cecè diplomatico. E proseguì: «Lei conosceva la signorina De Angelis?».

«Come no? L’ho conosciuta in crociera. Povera ragazza! Pranzavamo e cenavamo allo stesso tavolo. Chi l’avrebbe mai detto che…»

Cominciò ad ansimare, come se le mancasse il fiato. Cecè si scantò, con la coda dell’occhio taliò se il medico era nei paraggi. C’era. Si sentì rassicurato. Si susì, gli si avvicinò.

«La signora sta proprio male. La potrebbe tenere ancora per un po’ in infermeria?»

«Per un po’? Lei scherza. Non la faccio uscire da qui prima di tre-quattro giorni.»

Andò nel retroufficio, chiamò un suo amico che travagliava nella Questura di Firenze.

«Mi devi fare un favore. Devo sapere tutto della signora Tosca Firmiani, hai tre ore di tempo per richiamarmi

Dall’immagine del computer, Emanuela De Angelis, milanese, venticinque, risultava essere non solo una gran bella picciotta, ma la quintessenza dell’innocenza.

Allo scadere delle tre ore lo chiamarono da Firenze. Parlò a lungo al telefono, andò soddisfatto a mangiare poi si stinnicchiò sul letto e dormì fino al tramonto, quando un addetto lo svegliò avvertendolo che i crocieristi stavano per tornare a bordo. Una delle ultime ad acchianare fu la signorina De Angelis. Cecè le si avvicinò sorridente: «Mi permette una domanda? Da quanto tempo è l’amante di Carlo Firmiani, lo scioperato figlio della signora Tosca? Avevate architettato un delitto perfetto: stasera, vedendola viva, la signora sicuramente ci sarebbe rimasta. E Carlo avrebbe ereditato una fortuna».

La picciotta scoppiò a piangere.

E al lungo elenco delle persone che non erano quelle che parevano, Cecè Collura ci aggiunse una finta morta. Ma quella crociera era vera o virtuale?

Un mazzo di donne per il petroliere Bill

Da qualche tempo il commissario Collura aveva notato che la signora Agata Masseroni, maritata con il signor Bill McGivern, petroliere texano, era alquanto cangiata d’umore, parlava picca e non si faceva più le sue belle risate contagiose a scialacore. Alla coppia era spettato il privilegio d’assittarsi a pranzo e a cena, al tavolo del commissario, secondo un cerimoniale basato essenzialmente sui conti in banca, veri o presunti, dei partecipanti alla crociera. Ogni sera, alle nove spaccate, il petroliere McGivern si susiva dal tavolo, salutava e andava a corcarsi, come da un’abitudine tramandatagli dai Pionieri del West, suoi antenati. Gli altri commensali erano i coniugi Distefano, cinquantini con una sfrenata passione per il ballo che scomparivano appena finito di mangiare per tuffarsi «nel vortice delle danze» e la coppia Donandoni, che in due assommavano centosettant’anni d’età e che perciò principiavano ad avere gli occhi a pampineddra per il sonno già appena cominciava a scurare. Perciò dopo la cena Collura e la signora Agata potevano restarsene tanticchia a chiacchierare. Collura, notato il cangiamento, aveva un core d’asino e uno di leone: avrebbe voluto spiare alla signora cosa le stesse capitando, ma, per ritegno, non si arrisolveva a farlo. Una sera, pigliato coraggio, fu la signora Agata che s’addecise a confidarsi. Non fece preamboli, andò dritta all’argomento.

«Dottor Collura, credo che mio marito mi tradisca.»

«Nel Texas?»

«No, qui, sulla nave.»

Cecè ammammalucchì, la taliò a bocca aperta, non arriniscì più a spiccare parola.

«Perché mi guarda così? Può succedere, sa, dopo trent’anni di matrimonio. Del resto, Bill è un gran bell’uomo.»

Cecè, a causa delle ultime parole della signora, continuò ad ammammalucchire. È vero che l’amore è cieco, come si usa dire, ma è macari vero che trovi sempre qualcuno pronto a farti tornare la vista. Possibile che nessuno nei due continenti avesse mai fatto notare alla signora Agata che suomarito stava a mezzo tra la razza umana e la razza equina? Bastava taliargli identi, lunghi, gialli, sporgenti, come gettava le gambe quando caminava, come pigliava fiato dalle froge, come invece di ridere nitriva. Però poteva darsi che una fimmina, considerando il portafoglio di McGivern, si fosse persuasa che quell’omo non era certo Apollo, ma poco ci fagliava.

«Ne sono ancora così innamorata!» – fece la signora Agata sospirando e diventando una vampa di foco per la vergogna – «Ci siamo sposati che lui non aveva che dieci dollari in tasca. Si è fatto da sé, sgobbando senza un giorno di riposo. Non ci siamo mai lasciati. E ora…» Soffocò un singhiozzo. Cecè Collura si scantò che quella si mettesse a piangere a vista di tutti.

«Facciamo due passi.»

Niscirono sul ponte affollato, la sirata invogliava a stare all’aria aperta. Passiarono in silenzio per un quarto d’ora, poi la signora Agata taliò il ralogio e disse:

«Possiamo andare.»

Andare dove? Collura preferì non spiare. Rientrarono, Cecè appresso alla fimmina percorse mezzo corridoio 1a, dove si aprivano le cabine più lussuose. Davanti alla 18 la signora si fermò, cavò chiave dalla borsetta, raprì:

«Venga, commissario.»

«Ma forse il signor McGivern starà dormendo…»

«Entri, per favore.»

Ubbidì. Dintra non c’era nessuno, i due letti erano intatti. La signora raprì la porta del bagno: vacante. E qui, nella sua cabina, la fimmina si abbandonò finalmente a un pianto sconsolato, cadendo assittata sul letto. Collura, imbarazzatissimo, le si fece allato e, come da copione, principiò a darle colpettini leggeri sulla spalla.

«Coraggio, coraggio» – murmuriò.