«Fa così da tre sere» – disse la signora asciucandosi le lacrime.
«Lo sa verso che ora torna?»
«Certo che lo so. Fingo di dormire ma, mi capisca, non riesco a chiudere occhio. Mi giro e mi rigiro nel letto, affondo la testa nel cuscino per non far sentire ai vicini che piango, ieri notte mi sono scolata quattro bottigliette di whisky che ho trovate nel frigobar… cinque.»
«Una bottiglietta in più o in meno non fa differenza» – fece comprensivo il commissario.
«No, non ha capito. Torna verso le cinque del mattino.»
Se la tirava lunga la nottata, il texano, doveva averci la resistenza. Ma che voleva in sostanza Agata Masseroni in McGivern da lui? Non ebbe necessità di spiarglielo.
«Vorrei che lei facesse qualcosa.»
«A disposizione, signora, per quanto non credo che la cosa rientri nei miei…»
«Glielo sto chiedendo come amico.»
«D’accordo, sì, ma non vedo cosa possa fare.»
«Scopra chi è la donna, al resto penserò io. Me lo promette?»
E gli pigliò le mani. Cecè si liberò, sentendo che principiava a sudare, stava cominciando a sentirsi assufficare.
«Una domanda sola, signora: le assenze di suo marito si verificano solo la notte?»
«Sempre di notte. Di giorno non si allontana da me. E c’è una cosa strana, commissario. Il suo atteggiamento con me è quello di sempre, tenero, premuroso… innamorato.»
Un’altra vampata di foco all’ultima parola, pudicamente detta.
«Cercherò di fare del mio meglio, signora. Buonanotte.»
Niscì quasi di corsa dalla cabina, se ne andò a passiare sul ponte per ragionare meglio sulla facenna. A conoscere il nome dell’amante di mister McGivern ci sarebbe voluto picca e nenti, certamente si trattava di una che viaggiava da sola o in compagnia di un’amica che macari si allontanava dalla cabina quando il mascolo arrivava. Oppure non si allontanava e il texano si spogliava e si corcava in mezzo, va a sapere con questi omini alla John Wayne. Ad ogni modo, bastava fare una ricerca al computer e avrebbe avuto le risposte giuste. Però questa soluzione non gli piaceva, il nome dell’amante l’avrebbe potuto scoprire con una ricerca all’antica. Una volta scopertolo però, non l’avrebbe mai fatto conoscere alla signora Agata, capace che quella affrontava la rivale e succedeva un quarantotto. L’indomani a sira, all’ora della cena, Cecè Collura s’appresentò al tavolo ma non s’assittò: si scusò con gli ospiti di non poter mangiare con loro come di solito, ma aveva – disse – un problema d’amministrazione da risolvere urgentemente. Invece si sistemò nel retroufficio del commissariato e si sbafò la cena fredda che aveva ordinato. Poi, alle nove precise, munito di un passepartout, raprì la porta di uno sgabuzzino di servizio nel corridoio 1a, allocato proprio davanti alla cabina dei McGivern e si mise ad aspittare con santa pacienza. Sentì il mister texano arrivare, trasire, chiudere. Dopo manco dieci minuti lo sentì nesciri, chiudere, incamminarsi al piccolo trotto. Lo seguì nel corridoio. Il mister svoltò l’angolo e si fermò davanti alla cabina 6, non usò il campanello, tuppiò leggermente con le nocche, tre colpetti brevi, pausa, altri tre colpetti, pausa, tre colpetti ancora. La porta si raprì, il mister trasì, la porta si richiuse. Un segnale convenuto, preciso. Vuoi vidiri che la signora Agata aveva ragione? Gli venne fatto di provocare uno sconquasso facendosi raprire la porta con lostesso sistema usato da McGivern, ma poi ci ripensò e tornò in ufficio.
Chiamò sparte il suo vice Premuda.
«Vuole controllare chi occupa la cabina 6 del corridoio la?»
«L’avvocato Cicerchia» – rispose l’altro senza la minima esitazione.
Cecè Collura lo taliò imparpagliato. Perché il vice, senza bisogno di consultare il computer, aveva la risposta pronta?
Premuda prevenne la domanda e si spiegò, sgombrando dalla testa di Cecè il pinsero che gli era venuto, e cioè che mister McGivern fosse di gusti sessuali tanticchia complicati.
«Ha già fatto una crociera con me. Lo conosco bene. Nella sua cabina organizza pokerini riservati a miliardari. Viaggia con una valigia piena di carte da gioco nuove, che fa accuratamente confrollare agli sventurati che seggono al suo tavolo. Perché immancabilmente li pela. Sarà anche un avvocato, ma secondo me è principalmente un baro abilissimo.»
Collura ne fu contento per la signora Agata.
Però, subito appresso, pigliò in lui sopravvento lo sbirro.
«Mi pare che il gioco d’azzardo sia proibito.»
«Lo è, commissario. Ma noi cosa possiamo farci? Non possiamo irrompere nella cabina, questo è certo. D’altra parte nemmeno l’altra volta ci fu, che so, una denunzia, una protesta contro Cicerchia. Abbiamo le mani legate.»
Alla fine della cena della sera dopo, quando McGivern si susì e scomparse, Collura comunicò alla signora Agata la novità.
La signora, di colpo, partì con una risata fragorosa, era tornata al suo umore normale.
«Ma sa, forse alla fine di questa crociera suo marito sarà stato alleggerito e parecchio.»
«Non m’importa, basta che non abbia un’amante. Miliardi non gliene mancano, possiede persino la banca dove li deposita.»
Mentalmente, Cece s’inchinò a quella logica fimminina. Ma la facenna del baro che agiva indisturbato non se l’agliuttì. Doveva inventarsi qualche cosa. Si fece dare da Premuda tutti i particolari possibili.
«A quanto io ne so, commissario, Cicerchia porta con sé anche le fiches che convertono alla fine. Non credo ci sia un tetto ai rilanci. Nelle prime tre sere, Cicerchia vince e perde, perde in modo sensibile, poi, dalla quarta sera in poi, comincia a vincere.
«Non solo si rifà, ma spenna di brutto gli altri. Corre su di lui una leggenda, non va al bagno durante le partite, è capace di star seduto al tavolo una giornata intera.»
«Chiamano qualche volta il cameriere per farsi portare da bere, che so, un panino…»
«Mai. Cicerchia ogni mattina si fa abbondantemente riempire il frigobar.»
Cicerchia si era blindato bene. Cecè ci perse qualche ora di sonno, poi, nella matinata, si fece persuaso che aveva messo male il problema. Non si trattava di scoprire come faceva quello a barare, ma di metterlo in condizioni di non trovare più compagni di gioco. Calcolò che almeno da una sera Cicerchia aveva cominciato a vincere. E pensò a una cosa semplicissima. In matinata andò in infermeria, si fece dare un certo medicinale, lo consegnò al cammarere che serviva al tavolo di Cicerchia, gli diede precise istruzioni. Aveva principiato a fare macari lui un gioco d’azzardo, peggio di quelli che faceva il sedicente avvocato.
Non andò quella sera a corcarsi, in attesa degli eventi. Premuda, ignaro del trainello che il suo capo aveva preparato per Cicerchia, volle tenergli compagnia. Verso le due di notte uno steward arrivò di corsa, riferì che una violenta lite era scoppiata nella cabina 6 del corridoio 1a.
«Vada a vedere che succede» – disse pigramente Collura.
Ma lo sapeva già. Premuda, di ritorno dopo un’ora, gli contò la scena che il commissario si era immaginata. «Cicerchia è passato alla terza fase e ha cominciato a vincere di brutto. Però, contrariamente alle altre sere, ogni mezz’ora interrompeva per andare in bagno. La cosa ha insospettito gli altri. Si sono domandati perché l’avvocato, proprio quando vinceva, andava in bagno. Che faceva? Cambiava le carte? Hanno preteso di perquisire il locale, Cicerchia si è opposto, sono corse male parole, è scoppiata la rissa. Ho dovuto accompagnare Cicerchia in infermeria, ma ormai s’è sparsa la voce che è un baro. E ora mi dica, commissario, e stato lei a organizzare tutto?»
«Sì» – ammise Cecè Collura – «con l’aiuto del dottore che m’ha dato un potente diuretico.»
Un baro vero fatto scoprire con un falso indizio. La crociera, vera o virtuale, continuava.