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«Spiegati meglio.»

«Beh, una donna che perde tutti i suoi gioielli piange, si dispera… Lei no, ecco.»

Il marinaio era un picciotto sveglio, aveva contato i fatti con precisione e non aveva manifestato il minimo sospetto che la facenna fosse stata tutta architettata tra marito e mogliere, come invece lui andava sempre più persuadendosi. Ci ragionò sopra a lungo e poi decise di giocare tutto per tutto. Per perquisire la cabina dei Martino avrebbe dovuto domandare il permesso al comandante, ma era certo che quello, pignolo com’era e sulla base di un semplice sospetto, non glielo avrebbe mai dato. S’informò discretamente con la cammarera addetta alla cabina sulle abitudini della coppia: i Martino andavano a pranzo sempre alle tredici e tornavano alle quindici spaccate. Due ore di tempo: ce l’avrebbe fatta? Per sicurezza, passò al ristorante: i Martino erano assittati al loro posto. Si precipitò nella cabina che occupavano, raprì col passepartout, richiuse la porta alle sue spalle. La perquisizione fatta con estrema quatela per non lasciare traccia del passaggio di uno straneo, durò poco più di un quarto d’ora. Raprendo una scatola di scarpe in fondo all’armadio, dovette a fatica trattenere un grido di trionfo: i gioielli, che ben conosceva per averli visti addosso alla signora, erano tutti malamente stipati là dentro. Possibile che dopo tutto il teatro che avevano fatto, li lasciassero così, quasi allo scoperto, alla mercé di una cammarera qualsiasi? Forse – si persuase Cecè – non avevano ancora avuto il tempo di trovare un nascondiglio sicuro. Il Cavalier Martino e la sua dolce mogliere l’avevano pensata bella: tenersi i gioielli e farseli pagare dall’assicurazione. Niscì, chiuse nuovamente la porta, andò a mangiare con soddisfazione. Il giorno appresso era previsto lo scalo e il rappresentante della Società s’appresentò all’ufficio commissariato. Quando seppe che il commissario era un commissario sbirro provvisoriamente ceduto al mare, cangiò di colpo modo e parola.

«Ha detto ai Martino che sarei arrivato?» – spiò quello dell’assicurazione che si chiamava De Dominici.

«Me ne sono guardato bene» – fece Cecè. E spiò a sua volta:

«C’è qualcosa che non va?»

«C’è che il Cavaliere è in balia degli strozzini. Le basta?»

Collura si era assicurato che i Martino fossero scesi a terra.

«Venga con me.»

Guidò De Dominici nella cabina della coppia, gli mostrò trionfante i gioielli nella scatola di scarpe.

De Dominici, che nelle vene doveva avere sangue di pesce, non disse né ai né bai, si limitò a taliare i gioielli di sfuggita.

«Queste sono le copie» – decretò – «Il cavaliere Martino ce l’aveva fatto sapere.»

Collura aggelò: aveva sbagliato tutto. E decise di non occuparsi più della facenna. La sera stessa il rappresentante se ne ripartì, lasciando intendere che l’assicurazione avrebbe pagato. La notte, nel suo letto, Cecè Collura si contò una storia. C’è un sissantino innamorato della giovane moglie. La vendita dei gioielli che lei possiede, assediato com’è dagli strozzini, potrebbe dargli tanticchia d’ossigeno. Ma non osa dirlo a Irene, tanto più che la picciotta ignora la sua situazione economica disperata. Quel giorno, sulla scialuppa, gli si presenta una soluzione: far cadere in acqua i veri gioielli e riscuotere i soldi dell’assicurazione. Per i gioielli nuovi da ricomprare, si vedrà. Cecè Collura si ripromise di non contare quella storia a nessuno: gli era servita solo per pigliare sonno. E s’inquadrava perfettamente con le altre storie che gli erano capitate per cui non arrinisciva più a capacitarsi se quella crociera fosse vera o virtuale.

Che fine ha fatto la piccola Irene?

Prima d’accettare l’offerta d’imbarco, Cecè Collura ne aveva parlato col suo maestro e amico Salvo Montalbano, che faceva il suo stesso misteri a Vigata, ma era omo di grande spirenzia. Montalbano l’aveva taliato a lungo senza parlare, poi si era addeciso a raprire bocca.

«Cecè, tu l’hai mai fatto qualche volo transoceanico?»

Alla sola idea, la fronte di Collura s’imperlò di sudore.

«No, fino a questo momento il Signore mi ha risparmiato.»

«Vedi, Cecè, quando t’appresenti a bordo dell’aereo, ti ricevono le hostess che sono linde e pinte. Divisa senza una piega, manco un capello fora di posto. Dopo tanticchia che si è partiti, le hostess si levano la divisa e indossano una speciedi vistitazzo da travaglio. E lo sai perché?»

«No, non lo so e manco lo vorrei sapiri.»

«Devi saperlo, invece. Si cangiano il vestito perché addiventano serve. Agli ordini di quello che non gli piace il mangiare e ne vuole uno diverso, agli ordini di chi soffre per il volo e si vomita addosso, agli ordini di una madre che deve cangiare il pannolino a un picciliddro, agli ordini…»

Cecè Collura, bianco in faccia, l’interruppe.

«E secondo te un commissario di bordo deve puliziare il sederino ai neonati?»

«Non dico questo; ma quasi.»

Forse, rifletté dopo qualche giorno di navigazione Cecè Collura, Montalbano era stato troppo pessimista, come del resto era nel suo carattere. È vero, rogne e camurrie coi crocieristi ce n’erano ogni giorno, ma capitava macari ogni tanto qualche cosa che metteva in ballo le sue doti di sbirro. Come quando la figlia della signora Spoto, che aveva appena tre mesi, si volatilizzò.

La signora Laura Spoto doveva avere passato la trentina e forse era una bella fimmina. Forse, perché quella che stava davanti a Cecè Collura era una povirazza con gli occhi rossi e abbottati dalle lacrime, due solchi profondi ai lati della bocca, la pelle di un cattivo colore. Contò che, dopo aver ce nato, era andata a dar da mangiare alla sua bambina che si chiamava Irene. Come faceva ogni sera.

«L’allatta lei, signora?»

No, non l’allattava lei, ma si era portata appresso tutto il necessario e la cabina era attrezzatissima. Proseguì, tra i singhiozzi, dicendo che verso le ventidue, essendosi Irene addormentata, aveva deciso di pigliare tanticchia d’aria facendo quattro passi sul ponte più vicino alla sua cabina, una matrimoniale esterna. Quando era tornata, dopo manco mezz’ora, aveva aperto la porta e non aveva visto la bambina sul letto dove l’aveva lasciata. Pensò fosse caduta malgrado l’avesse messa in mezzo a due cuscini per protezione. La cercò sempre più disperatamente.

«È sicura d’aver chiuso a chiave la porta della cabina?»

«Sicurissima. Ci sto attenta.»

E subito dopo queste parole ebbe una violenta crisi di pianto, alla quale seguì un collasso. Il triestino telefonò all’ambulatorio, fece venire un medico. Questi, appena le diede un’occhiata, volle fosse immediatamente trasferita in infermeria. Prima di principiare l’indagine, Cecè Collura andò a parlare col comandante che, alla notizia, impallidì.

«Questa è la cosa peggiore che ci potesse capitare! Una bambina di tre mesi non si mette a camminare da sola! È chiaro che qualcuno l’ha rapita. Discrezione, mi raccomando. O tutti chiederanno di sbarcare.»

«Il computer ci ha fornito i dati della passeggera. Ha un marito a Genova, non si è imbarcato. Che faccio, comandante, l’avverto della situazione?»

«Per carità! Non se ne parla nemmeno! Non solo non ci sarebbe di nessuna utilità, ma si metterebbe a fare il diavolo a quattro, i giornali lo verrebbero a sapere e buonanotte alla crociera. Cautela, mi raccomando, commissario.»

«Ho dato disposizioni che nessuno s’avvicini alla 38, la cabina della signora Spoto. E ho convocato la cameriera e l’inserviente addetti al corridoio» – disse il triestino appena lo vide tornare.

E seguitò: «Vuole che andiamo a dare un’occhiata?».

«Prima vorrei parlare con questi due. E intanto mi faccia sapere come sta la signora, se è in grado di rispondere alle nostre domande.»