«Senza contare il fantasma del vascello pirata» scherzò Irene.
Il ragazzo condusse la barca a vela fino al pontile e saltò a terra per assicurare la cima di prua. Irene seguì il suo esempio. Appena il Kyaneos fu ben ormeggiato, Ismael prese un cesto di provviste preparato per lui dalla zia, convinta che non ci fosse nessuna possibilità di conquistare una signorina con lo stomaco vuoto e che bisognasse soddisfare gli istinti per ordine di priorità.
«Vieni. Se ti piacciono le storie di fantasmi, questo ti interesserà. .»
Ismael aprì la porta della casa del faro e fece segno a Irene di precederlo. La ragazza entrò nella vecchia abitazione ed ebbe la sensazione di essere tornata indietro nel tempo di due decenni. Tutto era rimasto intatto, avvolto da una cappa di nebbia prodotta, anno dopo anno, dall'umidità. Decine di libri, oggetti e mobili erano immutati, come se un fantasma si fosse portato via di notte il guardiano del faro.
Irene guardò Ismael, affascinata.
«Aspetta di vedere il faro» disse lui.
La prese per mano e la condusse fino alla scala che saliva a spirale verso la torre. Irene si sentiva come un'intrusa che invadeva quel luogo sospeso nel tempo e, insieme, come un'avventuriera sul punto di svelare uno strano mistero.
«Cosa è successo al guardiano?»
Ismael impiegò un po' di tempo a rispondere.
«Una notte salì sulla sua barca e lasciò l'isolotto. Non si prese neppure la briga di raccogliere le sue cose.»
«Perché avrebbe fatto una cosa del genere?»
«Non l'ha mai spiegato» rispose Ismael.
«E tu perché credi che lo abbia fatto?»
«Per paura.»
Irene deglutì e si guardò alle spalle, aspettandosi di vedere da un momento all'altro lo spettro di quella donna annegata che saliva come un demone di luce lungo la scala a chiocciola, con gli artigli protesi verso di lei, il volto bianco come porcellana e due cerchi neri intorno agli occhi saettanti.
«Non c'è nessuno qui, Irene. Solo tu e io» disse Ismael.
La ragazza annuì senza molta convinzione.
«Solo gabbiani e granchi, eh?»
«Esatto.»
La scala sbucava sulla piattaforma del faro, una torre di vedetta sull'isolotto dalla quale si poteva contemplare tutta Baia Azzurra. Uscirono entrambi all'esterno. La brezza fresca e la luce splendente facevano svanire tutti gli echi spettrali evocati dall'interno del faro. Irene respirò a fondo e si lasciò stregare dallo spettacolo che si poteva godere soltanto da lì.
«Grazie per avermi portata» sussurrò.
Ismael annuì, distogliendo nervosamente lo sguardo.
«Ti va di mangiare qualcosa? Io sto morendo di fame» annunciò.
Così, si sedettero entrambi all'estremità della piattaforma del faro e, con le gambe penzoloni nel vuoto, fecero onore ai manicaretti che la cesta nascondeva. Nessuno dei due aveva davvero molto appetito, però mangiare teneva occupate le mani e la mente.
In lontananza, Baia Azzurra dormiva sotto il sole pomeridiano, indifferente a quanto accadeva su quell'isolotto appartato dal mondo.
Tre tazze di caffè e un'eternità più tardi, Simone era ancora in compagnia di Lazarus, ignara del passare del tempo. Quella che era iniziata come una semplice chiacchierata amichevole si era tramutata in una lunga e profonda conversazione su libri, viaggi e vecchi ricordi. Dopo appena poche ore, la donna aveva la sensazione di conoscere Lazarus da tutta la vita. Per la prima volta da mesi si sorprese a dissotterrare ricordi dolorosi degli ultimi giorni di vita di Armand, e nel farlo provò una benefica sensazione di sollievo. Lazarus ascoltava con attenzione e in rispettoso silenzio. Sapeva quando cambiare discorso o quando lasciar fluire liberamente la memoria.
Le costava pensare a Lazarus come al suo datore di lavoro. Ai suoi occhi, l'inventore di giocattoli assomigliava più a un amico, un buon amico. Via via che il pomeriggio avanzava, Simone comprese, tra il rimorso e una vergogna quasi infantile, che in altre circostanze, in un'altra vita, quella straordinaria intesa tra loro avrebbe forse potuto essere il seme di qualcos'altro. L'ombra della vedovanza e i ricordi fluttuavano dentro di lei come la scia di un temporale; nello stesso modo in cui la presenza invisibile della moglie malata di Lazarus saturava l'atmosfera di Cravenmoore. Testimoni invisibili nell'oscurità.
Le bastarono alcune ore di semplice conversazione per leggere negli occhi dell'inventore di giocattoli i suoi stessi pensieri. Ma vi lesse anche che il legame con la moglie sarebbe stato eterno e che il futuro riservava loro niente più di un'amicizia. Una profonda amicizia. Un ponte invisibile si alzò tra due mondi che si sapevano separati da oceani di ricordi.
Una luce aurea che annunciava il crepuscolo invase lo studio di Lazarus e tese fra i due una rete di riflessi dorati. Lazarus e Simone si guardarono in silenzio.
«Posso farle una domanda personale, Lazarus?»
«Certamente.»
«Per quale motivo è diventato un inventore di giocattoli? Il mio defunto marito era ingegnere, e di un certo talento. Ma il suo lavoro rivela un talento rivoluzionario. E non esagero; lei lo sa meglio di me.
Perché i giocattoli?»
Lazarus sorrise in silenzio
«Non è obbligato a rispondermi» aggiunse Simone.
L'uomo si alzò e camminò lentamente fino al davanzale della finestra. La luce dorata tinse la sua sagoma.
«È una lunga storia» cominciò. «Quando ero ancora bambino, la mia famiglia viveva nell'antico quartiere di Les Gobelins, a Parigi. Probabilmente lei conosce la zona, un rione povero e imbruttito da vecchi edifici bui e insalubri. Una cittadella spettrale e grigia, dalle strade anguste e miserevoli. In quei giorni, se possibile, la situazione era persino più degradata di quello che lei può ricordare. Noi occupavamo un piccolo appartamento in un vetusto immobile di rue des Gobelins. Parte della facciata era puntellata per le minacce di crolli, ma nessuna delle famiglie che occupavano il palazzo era in condizione di trasferirsi in una casa migliore. Come riuscivamo a vivere lì i miei tre fratelli, io, i miei genitori e lo zio Luc mi sembra ancora un mistero. Ma sto divagando. .
«Ero un ragazzo solitario. Lo sono sempre stato. La maggior parte dei ragazzi della strada erano interessati a cose che mi annoiavano e, d'altra parte, le cose che interessavano me non suscitavano la curiosità di nessuno di quelli che conoscevo. Avevo imparato a leggere: un miracolo; e i miei amici perlopiù erano libri. Questo sarebbe stato un motivo di preoccupazione per mia madre se non avesse avuto altri problemi più gravi in casa: lei ha sempre creduto nell'idea che un'infanzia sana consistesse nello scorrazzare per strada, imparando a imitare gli usi e i costumi di chi ci circondava.
«Mio padre si limitava ad aspettare che io e i miei fratelli fossimo abbastanza grandi da portare un po'
di soldi in famiglia. Altri non erano così fortunati. Nella nostra scala viveva un ragazzo della mia età che si chiamava Jean Neville. Jean e la madre, vedova, erano reclusi in un minuscolo appartamento al pianterreno. Il padre del ragazzo era morto anni prima in conseguenza di una malattia contratta nella fabbrica di piastrelle dove aveva lavorato per tutta la vita. Una cosa comune, a quanto pare. Seppi tutto questo perché, con il tempo, divenni l'unico amico che il piccolo Jean ebbe nel quartiere. La madre, Anne, non lo faceva uscire dal palazzo o dal cortile interno. La sua casa era il suo carcere.
«Otto anni prima, Anne Neville aveva dato alla luce due gemelli nel vecchio ospedale di Saint-Christian, a Montparnasse. Jean e Joseph. Joseph nacque morto. Durante gli otto anni della sua esistenza, Jean imparò a crescere nel buio della colpa per aver ucciso il fratello alla nascita. O, almeno, era questo che credeva. Anne si incaricò di ricordargli giorno dopo giorno che il fratello era nato morto per colpa sua; se non fosse stato per lui, al suo posto ci sarebbe stato un bambino meraviglioso. Nulla di quanto faceva o diceva riusciva a conquistare l'affetto di sua madre.