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«Anne Neville, ovviamente, in pubblico dispensava le normali affettuosità al figlio. Ma nella solitudine di quell'appartamento la realtà era un'altra. Anne glielo ricordava quotidianamente: Jean era uno scansafatiche. Un perdigiorno. I suoi risultati scolastici erano scarsi. Le sue qualità, più che dubbie. I suoi movimenti, sgraziati. La sua esistenza, in sintesi, una maledizione. Joseph, invece, sarebbe stato un ragazzino adorabile, studioso, affettuoso. . Tutto ciò che lui non sarebbe mai potuto essere.

«Il piccolo Jean non tardò a capire che sarebbe dovuto morire lui in quella triste stanza d'ospedale otto anni prima. Stava occupando il posto di un altro. . Tutti i giocattoli che Anne aveva per anni messo da parte per il futuro figlio furono bruciati nella stufa la settimana successiva al ritorno dall'ospedale.

Jean non ebbe mai un giocattolo. Gli erano proibiti. Non li meritava.

«Una notte in cui il ragazzino si svegliò urlando nel sonno, la madre accorse al suo letto e gli chiese cosa succedeva. Jean, terrorizzato, confessò che aveva sognato un'ombra, uno spirito maligno che lo inseguiva lungo un tunnel interminabile. La risposta di Anne fu chiara. Si trattava di un segno. L'ombra che aveva sognato era il riflesso del fratello morto che chiedeva vendetta. Doveva fare un ulteriore sforzo per essere un figlio migliore, per obbedire in tutto alla madre, per non discutere neppure una delle sue parole e delle sue azioni. In caso contrario, l'ombra avrebbe preso vita e sarebbe tornata per condurlo all'inferno. Con queste parole, Anne prese il figlio e lo portò in cantina, dove lo lasciò solo, al buio, per dodici ore, perché meditasse su ciò che gli aveva detto. Quella fu la prima delle sue reclusioni.

«Un anno dopo, quando un pomeriggio il piccolo Jean mi raccontò tutto questo, fui invaso da una sensazione d'orrore. Volevo aiutarlo, confortarlo e compensare in qualche modo la miseria in cui viveva.

L'unica cosa che mi venne in mente fu di raggranellare le monete che avevo messo per mesi nel mio salvadanaio e di andare al negozio di giocattoli di monsieur Giradot. Con quello che avevo non potevo comprare granché, e ottenni solo un vecchio burattino, un angelo di cartone che poteva essere manovrato con i fili. Lo avvolsi in una carta lucida e, il giorno dopo, aspettai che Anne Neville uscisse a fare la spesa. Bussai alla porta di casa e dissi che ero io, Lazarus. Jean aprì e gli diedi il pacchetto. Era un regalo, spiegai, e me ne andai.

«Non lo vidi per tre settimane. Immaginai che Jean si stesse godendo il mio regalo, giacché io non avrei potuto godermi i miei risparmi per molto tempo. Seppi in seguito che quell'angelo di panno e cartone era sopravvissuto un solo giorno. Anne lo aveva trovato e bruciato. Quando gli aveva chiesto dove lo avesse preso, Jean, che non voleva coinvolgermi, disse di averlo fatto con le sue mani.

«E un giorno la punizione fu ancora più terribile. Anne, fuori di sé, portò il figlio in cantina e lo chiuse lì, minacciando che quella volta l'ombra sarebbe venuta a cercarlo nell'oscurità per portarselo via.

«Jean Neville passò lì una settimana intera. Sua madre si era fatta coinvolgere in un alterco al mercato di Les Halles e la polizia l'aveva rinchiusa, insieme a molti altri, in una cella comunale. Quando la liberarono, si mise a vagare per giorni nelle strade. Al suo ritorno trovò la casa vuota e la porta della cantina sbarrata. Alcuni vicini l'aiutarono a buttarla giù. La cantina era deserta. Non c'era traccia di Jean da nessuna parte. .»

Lazarus fece una pausa. Simone rimase in silenzio, in attesa che il fabbricante di giocattoli finisse il suo racconto.

«Nessuno vide mai più Jean Neville nel quartiere. La maggior parte di quanti vennero a conoscenza della sua storia immaginò che il bambino fosse fuggito da qualche botola della cantina per andarsene il più lontano possibile dalla madre. Suppongo che sia accaduto proprio questo, per quanto, se lei lo avesse chiesto alla mamma, che passò settimane, mesi, piangendo sconsolata la perdita del figlio, sono certo che le avrebbe detto che l'ombra se l'era preso. . Prima le ho confidato che probabilmente sono stato l'unico amico di Jean Neville. Sarebbe più giusto dire il contrario. Fu lui il mio unico amico. Anni dopo, mi ripromisi che, se fosse dipeso da me, mai più nessun bambino sarebbe stato privato di un giocattolo. Nessun bambino avrebbe dovuto vivere l'incubo che aveva tormentato l'infanzia del mio amico Jean. Ancora oggi mi chiedo dove sarà, se è ancora vivo. Immagino che le sembrerà una spiegazione un po' strana. .»

«Niente affatto» rispose Simone, il viso nascosto nell'ombra.

Poi si spostò verso la luce e abbozzò un ampio sorriso per Lazarus.

«Si è fatto tardi» disse dolcemente l'inventore di giocattoli. «Devo andare da mia moglie.»

Simone annuì.

«Grazie per la compagnia, madame Sauvelle» disse Lazarus, uscendo in silenzio dalla stanza.

Lei lo guardò andare e sospirò a fondo. La solitudine tracciava strani labirinti.

Il sole cominciava a calare sulla baia e le lenti del faro stillavano scintillii ambrati e scarlatti sul mare.

Ora la brezza era più fresca e il cielo si tingeva di un azzurro chiaro, solcato da alcune nuvole che viaggiavano smarrite, come dirigibili d'ovatta bianca.

Irene era stesa, appoggiata con grazia alla spalla di Ismael, in silenzio. Il ragazzo la circondò lentamente con un braccio. Lei alzò gli occhi. Le sue labbra erano socchiuse e tremavano in modo impercettibile. Ismael avvertì un solletico allo stomaco e sentì uno strano ticchettio nelle orecchie. Era il suo cuore che martellava a tutta velocità. Poco alla volta, le loro labbra si avvicinarono timidamente.

Irene chiuse gli occhi. Ora o mai più, sembrava sussurrare una voce a Ismael. Il ragazzo scelse la prima opzione e lasciò che la sua bocca sfiorasse quella di Irene. I dieci secondi successivi durarono dieci anni.

Più tardi, quando entrambi sentirono che non esistevano più barriere fra loro, che ogni sguardo e ogni gesto erano una parola di una lingua che solo loro potevano decifrare, Irene e Ismael rimasero abbracciati in silenzio in cima al faro. Se fosse dipeso da loro, sarebbero rimasti lì fino al giorno del Giudizio.

«Dove ti piacerebbe essere tra dieci anni?» chiese Irene all'improvviso.

Ismael si soffermò a pensarci. Non era facile.

«Bella domanda. Non lo so.»

«Cosa ti piacerebbe fare? Continuare il mestiere di tuo zio sulla barca?»

«Non credo che sarebbe una buona idea.»

«Allora cosa?» insisté lei.

«Non lo so, credo sia una sciocchezza. .»

Ismael si immerse in un lungo silenzio. Irene aspettò pazientemente.

«Sceneggiati radiofonici. Mi piacerebbe scrivere sceneggiati per la radio» rispose alla fine Ismael.

Ormai l'aveva detto.

Irene gli sorrise. Di nuovo quel sorriso indefinibile e misterioso.

«Che genere di sceneggiati?»

Ismael la guardò con attenzione. Non ne aveva mai parlato con nessuno e non si sentiva abbastanza sicuro per farlo. Forse la cosa migliore era ripiegare le vele e tornare in porto.

«Del mistero» rispose, esitante, alla fine.

«Pensavo che non credessi ai misteri.»

«Non c'è bisogno di crederci per scriverne» replicò Ismael. «È da un sacco di tempo che raccolgo ritagli di giornale su un tizio che fa sceneggiati radiofonici. Si chiama Orson Welles. Magari potrei provare a lavorare con lui. .»

«Orson Welles? Non ne ho mai sentito parlare, ma immagino che non sarà una persona facilmente raggiungibile. Hai già qualche idea?»

Ismael annuì in modo vago.

«Promettimi che non lo racconterai a nessuno.»

La ragazza alzò solennemente una mano.

L'atteggiamento di Ismael le pareva infantile, ma la cosa la incuriosiva.

«Seguimi.»

Ismael la riportò alla casa del guardiano del faro.

Una volta lì, si avvicinò a un baule in un angolo e lo aprì. Gli occhi gli brillavano per l'eccitazione.