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Irene, con lo stomaco rattrappito, si avvicinò alla soglia della casa, timorosa di suonare alla porta. Con quale diritto osava turbare il dolore della famiglia in un momento del genere? A cosa stava pensando?

All'improvviso si fermò, incapace di andare avanti e di tornare indietro, arenata tra il dubbio e la necessità di vedere Ismael, di stargli accanto in un momento come quello. Proprio allora la porta della casa si aprì e la figura paffuta e severa del dottor Giraud, il medico locale, percorse la strada. I suoi occhi brillanti e schermati dalle lenti avvertirono la presenza di Irene nella penombra.

«Tu sei la figlia di madame Sauvelle, non è vero?»

Lei annuì.

«Se sei venuta per Ismael, non è in casa» spiegò Giraud. «Quando ha saputo di sua cugina ha preso la barca e se n'è andato.»

Il medico si accorse che il volto della ragazza stava sbiancando.

«È un buon marinaio. Tornerà.»

Irene camminò fino alla punta del molo. La sagoma solitaria del Kyaneos si stagliava nella bruma, illuminata dalla luna. La ragazza si sedette sul cornicione dell'argine e guardò la barca a vela di Ismael che faceva rotta verso l'isolotto del faro. Adesso, niente e nessuno potevano sottrarlo alla solitudine che si era scelto. Irene provò il desiderio di prendere una barca e inseguirlo fino ai confini del suo mondo segreto, però sapeva che qualsiasi sforzo ormai era inutile.

Avvertendo che il vero impatto della notizia cominciava a farsi strada nella sua mente, Irene sentì i suoi occhi riempirsi di lacrime. Quando il Kyaneos divenne invisibile nell'oscurità, inforcò di nuovo la bicicletta e riprese il cammino verso casa.

Mentre percorreva la strada della spiaggia poteva immaginare Ismael seduto in silenzio nella torre del faro, solo con se stesso. Ricordò le innumerevoli occasioni in cui lei stessa aveva intrapreso quel viaggio dentro di sé, e si ripromise che, qualunque cosa fosse accaduta, non avrebbe lasciato che il ragazzo si perdesse in quel sentiero di ombre.

Quella sera la cena fu breve. Un rituale di silenzi e sguardi smarriti fece da anfitrione, mentre Simone e i due figli fingevano di mangiare qualcosa prima di ritirarsi nelle rispettive stanze. Alle undici, neppure un'anima attraversava ormai i corridoi, soltanto una luce restava accesa in tutta la casa: la lampada da notte di Dorian.

Una fredda brezza penetrava dalla finestra aperta della sua stanza. Dorian, steso a letto, ascoltava le voci spettrali del bosco con lo sguardo perso nelle tenebre. Poco prima di mezzanotte spense la luce e andò alla finestra. Un nero mare di foglie si agitava al vento. Il ragazzo fissò il mulinello di ombre che danzava nella vegetazione. Poteva sentire quella presenza aggirarsi furtivamente nell'oscurità.

Oltre il bosco si distingueva la sagoma sinuosa di Cravenmoore e un rettangolo illuminato nell'ultima finestra dell'ala nord. Improvvisamente, dalla foresta si diffuse un alone tremolante e dorato. Luci nel bosco. Le luci di una lanterna o di una torcia nella macchia. Dorian deglutì. Brevi scintillii apparivano e scomparivano, disegnando cerchi all'interno della vegetazione.

Un minuto dopo, avvolto in un pesante maglione e con i suoi stivali di cuoio, Dorian se la svignò giù per le scale, in punta di piedi, e con infinita delicatezza aprì la porta della veranda. La notte era fredda e il mare ruggiva nell'oscurità, sotto le rocce. I suoi occhi seguirono la traccia disegnata dalla luna, un nastro argentato che serpeggiava verso l'interno della foresta. Un solletico allo stomaco gli ricordò la calda sicurezza della sua stanza. Dorian sospirò.

Le luci perforavano la nebbia, come spilli bianchi al limitare del bosco. Il ragazzo mise un piede davanti all'altro e andò avanti così. Prima che se ne rendesse conto, le ombre lo circondarono e la Casa del Capo, alle sue spalle, gli sembrò lontana, infinitamente lontana.

Né l'oscurità, né tutto il silenzio del mondo quella notte potevano conciliare il sonno di Irene. Alla fine, intorno a mezzanotte, rinunciò a dormire e accese la luce sul comodino. Il diario di Alma Maltisse se ne stava accanto al piccolo medaglione che suo padre le aveva regalato anni prima, l'effigie di un angelo intagliata nell'argento. Irene prese il diario e lo aprì di nuovo alla prima pagina.

La calligrafia appuntita e ondeggiante le diede il benvenuto. Il foglio, impregnato di uno spento color ocra, sembrava un campo di segale agitato dal vento. Lentamente, mentre i suoi occhi accarezzavano una riga dopo l'altra, Irene intraprese un'altra volta il suo viaggio nella memoria segreta di Alma Maltisse.

Non appena girò la prima pagina, il sortilegio delle parole la portò lontano. Non sentiva il rumore delle onde né il vento nel bosco. La sua mente era in un altro mondo. .

. . Stanotte li ho sentiti litigare in biblioteca. Lui urlava e la supplicava di lasciarlo in pace, di abbandonare la casa per sempre. Le ha detto che non aveva alcun diritto di fare ciò che stava facendo con le nostre vite. Non dimenticherò mai il suono di quella risata, un ululato animale di rabbia e odio deflagrato dietro le pareti. Lo schianto di migliaia di libri spazzati via dagli scaffali si è sentito in tutta la casa. La sua ira è ogni giorno più grande. Dal momento in cui ho liberato quella belva dal suo confino, è andata prendendo continuamente forza.

Tutte le notti lui fa la guardia ai piedi del mio letto. So che teme che, se mi lascia sola un istante, l'ombra verrà a prendermi. Da giorni non mi dice quali pensieri gli affol ano la mente, ma non ce n'è bisogno. Non dorme da settimane.

Ogni notte è un'attesa terribile e interminabile.

Dispone per tutta la casa centinaia di candele, cercando di diffondere luce in qualsiasi angolo per evitare che il buio faccia da riparo al 'ombra. Il suo volto è invecchiato di dieci anni in un solo mese.

A volte credo che sia tutta colpa mia, che se sparissi la sua maledizione si dileguerebbe insieme a me. Forse è questo che devo fare, al ontanarmi da lui e andare al mio inevitabile appuntamento con l'ombra. Solo così avremo pace. L'unica cosa che m'impedisce di compiere questo passo è che non tol ero l'idea di lasciarlo. Senza di lui, nul a ha senso. Né la vita, né la morte..

Irene alzò lo sguardo dal diario. Il labirinto di dubbi di Alma Maltisse le appariva sconcertante e, al tempo stesso, vicino in modo inquietante. Il confine tra la colpa e il desiderio di vivere sembrava affilato, come un coltello avvelenato. Irene spense la luce. L'immagine non svaniva dalla sua mente. Un coltello avvelenato.

Dorian si addentrò nel bosco seguendo la traccia delle luci che vedeva brillare nella vegetazione, riflessi che potevano provenire da qualunque luogo della foresta. Le foglie umide per la brina si trasformavano in un indecifrabile ventaglio di miraggi. Il rumore dei suoi passi adesso era diventato un'angosciosa protesta verso se stesso. Alla fine inspirò a fondo e si ricordò la sua intenzione: non se ne sarebbe andato senza sapere cosa si nascondeva nel bosco. Questo era tutto e non c'era altro.

Il ragazzo si fermò all'ingresso della radura dove il giorno prima aveva trovato le impronte. Le tracce adesso erano confuse e appena riconoscibili. Si avvicinò al tronco lacerato e sfiorò le tacche. L'idea di una creatura che si arrampicava velocissima tra gli alberi, come un felino uscito dall'inferno, si fece largo nella sua immaginazione. Due secondi dopo, il primo scricchiolio alle sue spalle lo avvertì dell'avvicinarsi di qualcuno. O di qualcosa.

Dorian si nascose nella vegetazione. Le punte affilate degli arbusti lo graffiavano come spilli.

Trattenne il respiro e pregò che chiunque lo stesse cercando non sentisse il martellare del suo cuore come lo sentiva lui in quel momento. Dopo un po', le luci tremolanti che aveva visto da lontano si aprirono un varco tra gli spiragli del sottobosco, trasformando la nebbiolina fluttuante in un refolo rossastro.

Si sentirono dei passi dall'altra parte degli alberi. Il ragazzo chiuse gli occhi, immobile come una statua. I passi si fermarono. Dorian sentì che gli mancava l'ossigeno, ma, per quanto lo riguardava, poteva trascorrere i successivi dieci anni senza respirare. Alla fine, quando credeva che i suoi polmoni stessero per scoppiare, due mani scostarono i rami degli arbusti che lo nascondevano. Le sue ginocchia si fecero di gelatina La luce di una lanterna lo accecò. Dopo un tempo che al ragazzo sembrò eterno, lo sconosciuto appoggiò a terra la lanterna e si accovacciò davanti a lui. Un viso vagamente familiare gli brillava accanto, ma il panico gli impediva di riconoscerlo. Lo sconosciuto sorrise