«Vediamo. Si può sapere che cosa ci fai qui?» disse la voce, serena e amabile.
A un certo punto, Dorian capì di avere di fronte semplicemente Lazarus. Soltanto allora respirò.
Dovette passare un buon quarto d'ora prima che il tremore abbandonasse le sue mani. Fu allora che Lazarus vi depositò una tazza di cioccolata calda e si sedette davanti a lui. L'uomo lo aveva accompagnato sotto la tettoia accanto alla fabbrica di giocattoli. Una volta lì, aveva preparato senza fretta la bevanda.
Mentre entrambi bevevano rumorosamente e si osservavano da sopra la tazza, Lazarus scoppiò a ridere «Mi hai fatto prendere uno spavento da morire figlio mio» gli assicurò.
«Se può esserle di consolazione, non è stato niente in confronto a quello che lei ha fatto prendere a me» aggiunse Dorian, sentendo la cioccolata calda che gli irradiava nello stomaco una gradevole sensazione di calma.
«Su questo non ho dubbi» rise Lazarus. «Ora mi dici che ci facevi lì fuori?»
«Ho visto delle luci.»
«Hai visto la mia lanterna. Per questo sei uscito? A mezzanotte? Per caso ti sei dimenticato di quello che è successo a Hannah?»
Dorian deglutì, anche se la saliva gli sembrò una pallottola di piombo di grosso calibro.
«No, signore.»
«Bene. Quindi, non lo dimenticare. È pericoloso andarsene a spasso nel buio. Da diversi giorni ho l'impressione che qualcuno si aggiri per il bosco.»
«Anche lei ha visto le impronte?»
«Quali impronte?»
Dorian gli raccontò i suoi timori e le sue inquietudini rispetto a quella strana presenza che intuiva nel bosco. Inizialmente credeva di non esserne capace, ma Lazarus ispirava la tranquillità e la confidenza necessarie a sciogliergli la lingua.
Mentre il ragazzo sgranava il suo racconto, Lazarus lo ascoltava con attenzione, però senza nascondere una certa incredulità e perfino qualche sorriso per i dettagli più fantasiosi della storia.
«Un'ombra?» chiese all'improvviso con semplicità.
«Lei non crede neppure a una parola di quello che le ho detto» osservò Dorian.
«No, no. Ti credo. O cerco di crederti. Capisci che quello che mi dici è un tantino. . particolare» disse Lazarus.
«Però anche lei ha visto qualcosa. Per questo era nel bosco. Non è così?»
Lazarus sorrise.
«Sì. Anche a me è sembrato di vedere qualcosa, però non potrei raccontare tanti dettagli come te.»
Dorian terminò la sua cioccolata.
«Ancora?» propose Lazarus.
Il ragazzo annuì. La compagnia dell'inventore di giocattoli era piacevole. L'idea di condividere una tazza di cioccolata con lui, di notte, gli sembrava un'esperienza educativa ed eccitante.
Gettando un'occhiata al laboratorio in cui si trovavano, Dorian notò, su uno dei tavoli da lavoro, una sagoma imponente stesa sotto un panno che la copriva.
«Sta lavorando a qualcosa di nuovo?»
Lazarus fece cenno di sì.
«Vuoi che te lo mostri?»
Gli occhi di Dorian si spalancarono. Non era necessaria una risposta.
«Be', devi considerare che non è finito. .» disse l'uomo, avvicinandosi al panno e illuminandolo con una lanterna.
«È un automa?» chiese il ragazzino.
«A suo modo, sì. In realtà è un pezzo un po' stravagante, credo. L'idea mi è frullata in testa per anni.
In effetti, è stato un ragazzo più o meno della tua età a suggerirmela molto tempo fa.»
«Un suo amico?»
Lazarus sorrise, nostalgico.
«Pronto?» chiese.
Dorian annuì energicamente con la testa. Lazarus sollevò il panno che copriva l'oggetto. . e il ragazzo, sbigottito, fece un passo indietro.
«È solo una macchina, Dorian. Non devi spaventarti. .»
Dorian osservò quella sagoma imponente. Lazarus aveva forgiato un angelo di metallo, un colosso alto quasi due metri e dotato di due grandi ali. Il volto di acciaio cesellato riluceva sotto un cappuccio.
Le mani enormi erano in grado di stringere la sua testa in un pugno.
Lazarus toccò qualche congegno alla base della nuca dell'angelo e la creatura meccanica aprì gli occhi, due rubini accesi come carboni ardenti. Lo stavano guardando. Lui. Dorian sentì le budella contorcersi.
«Per favore, lo fermi. .» supplicò.
Lazarus si accorse dello sguardo terrorizzato del ragazzo e si affrettò a ricoprire l'automa.
Dorian sospirò di sollievo nel non vedere più quell'angelo demoniaco.
«Mi dispiace» disse Lazarus. «Non avrei dovuto mostrartelo. È soltanto una macchina, Dorian.
Metallo. Non farti spaventare dalle apparenze. È solo un giocattolo.»
Il ragazzo annuì senza alcuna convinzione.
Lazarus si affrettò a offrirgli un'altra tazza colma di cioccolata fumante. Dorian sorbì rumorosamente il liquido denso e confortante sotto lo sguardo attento dell'inventore di giocattoli. Quando ne ebbe bevuto la metà, osservò Lazarus e si scambiarono un sorriso.
«Un bello spavento, eh?» chiese l'uomo.
Il ragazzino rise nervosamente.
«Penserà che sono un fifone.»
«Al contrario. Pochi si azzarderebbero a uscire per indagare nel bosco dopo quello che è successo a Hannah.»
«Lei cosa crede le sia successo?»
Lazarus si strinse nelle spalle.
«È difficile a dirsi. Suppongo che dovremo aspettare che la polizia finisca le indagini.»
«Sì, però. .»
«Però. .?»
«E se ci fosse davvero qualcosa nel bosco?» insisté Dorian.
«L'ombra?»
Dorian annuì gravemente.
«Hai mai sentito parlare del Doppelgänger?» chiese Lazarus.
Il ragazzo negò. L'inventore di giocattoli lo osservò di sottecchi.
«È una parola tedesca» spiegò. «Si usa per descrivere l'ombra di una persona che, per qualche motivo, si è separata dal suo proprietario. Vuoi sentire una strana storia al riguardo?»
«Sì, per favore. .»
Lazarus si accomodò su una sedia di fronte al ragazzo e tirò fuori un lungo sigaro. Dorian aveva imparato al cinema che quella specie di siluro corrispondeva al nome di habano e che, a parte costare una fortuna, sprigionava un odore acre e penetrante In realtà, dopo Greta Garbo, Groucho Marx era l'eroe delle sue matinée domenicali. La gente comune si limitava ad annusare il fumo di seconda mano.
Lazarus esaminò il sigaro e lo rimise a posto, intatto, pronto a iniziare il suo racconto.
«Be', la storia me l'ha raccontata un collega, ormai molto tempo fa. L'anno è il 1915. Il luogo, la città di Berlino. . Di tutti gli orologiai di Berlino, nessuno era tanto geloso del proprio lavoro e tanto perfezionista nei propri metodi come Hermann Blòcklin. In realtà, la sua ossessione per arrivare a creare i meccanismi più precisi lo aveva portato a elaborare una teoria sulla relazione fra il tempo e la velocità alla quale la luce si sposta nell'universo. Blòcklin viveva circondato da orologi in un piccolo alloggio nel retrobottega del suo negozio, in Henrichstrasse. Era un uomo solitario. Non aveva famiglia.
Non aveva amici. La sua unica compagnia era un vecchio gatto, Salman, che passava le ore in silenzio accanto a lui, mentre Blòcklin dedicava giorni interi alla sua scienza, nel suo laboratorio. Con il passare degli anni, il suo interesse si trasformò in un'ossessione. Non era raro che chiudesse il negozio al pubblico per giorni interi. Giorni di ventiquattro ore senza riposo, che dedicava a lavorare al suo agognato progetto: l'orologio perfetto, la macchina universale di misurazione del tempo.