Considerando i mesi precedenti, i debiti e la miseria, a Simone Sauvelle l'offerta di Lazarus sembrava una benedizione del cielo. Baia Azzurra era un luogo paradisiaco per iniziare una nuova vita con i figli.
Il lavoro era più che accettabile e Lazarus prometteva di essere un padrone magnanimo e benevolo.
Prima o poi la sorte doveva sorriderle. Il destino aveva deciso che accadesse in quel luogo isolato e, per la prima volta dopo molto tempo, Simone era disposta ad accettare con piacere i suoi piani. Inoltre, se l'istinto non la ingannava, e in genere non succedeva, coglieva una sincera corrente di simpatia verso di lei e la sua famiglia. Non era difficile immaginare che la loro compagnia e la loro presenza a Cravenmoore potevano rappresentare un balsamo per l'immensa solitudine che sembrava circondare il proprietario.
La cena terminò con un caffè e con la promessa di Lazarus che un giorno avrebbe iniziato un Dorian completamente ammaliato ai misteri della costruzione degli automi. Gli occhi del ragazzo si accesero di entusiasmo per quell'offerta e, per un breve istante, gli sguardi di Lazarus e Simone si incontrarono fugacemente alla luce delle candele. Simone vi riconobbe le tracce di anni di solitudine, un'ombra che conosceva bene. Navi alla deriva che si incrociavano nella notte. L'inventore di giocattoli socchiuse gli occhi e si alzò in silenzio, il segnale che la serata era giunta al termine.
Li guidò fino alla porta principale, fermandosi brevemente a spiegare alcuni dei prodigi che popolavano il percorso. Dorian e Irene restavano a bocca aperta a ogni dettaglio che veniva rivelato.
Cravenmoore ospitava meraviglie sufficienti a illuminare cent'anni di stupore. Poco prima di arrivare all'ingresso, Lazarus si fermò davanti a quello che pareva un complesso meccanismo di specchi e lenti, e rivolse uno sguardo enigmatico a Dorian. Senza dire una parola, introdusse il braccio in un corridoio di specchi. Lentamente, il riflesso della sua mano si dissolse fino a diventare invisibile. Lazarus sorrise.
«Non devi credere a tutto ciò che vedi. L'immagine della realtà che ci offrono i nostri occhi è solo un'illusione, un effetto ottico» disse. «La luce è una gran bugiarda. Dammi la mano.»
Dorian ubbidì e lasciò che il fabbricante di giocattoli la guidasse attraverso il corridoio di specchi.
L'immagine della mano gli si disintegrò davanti agli occhi. Allora, con una domanda muta nello sguardo, si voltò verso Lazarus.
«Conosci le leggi dell'ottica e della luce?» gli chiese l'uomo.
Dorian fece di no con la testa. In quel momento non sapeva neppure dove fosse la sua mano destra.
«La magia è soltanto un'estensione della fisica. Come te la cavi in matematica?»
«A parte la trigonometria, così e così. .»
Lazarus sorrise.
«Cominceremo da lì. La fantasia è numeri, Dorian. È questo il trucco.»
Il ragazzo annuì, senza sapere troppo bene di cosa stesse parlando Lazarus. Alla fine l'inventore indicò la porta e li accompagnò fino alla soglia. Fu allora che Dorian, quasi casualmente, credette di vedere l'impossibile. Passando davanti a uno dei lampioni tremolanti, le sagome dei loro corpi si disegnarono sopra i muri. Tutte meno una: quella di Lazarus, la cui traccia sulla parete era invisibile, come se la sua presenza non fosse che un'illusione.
Quando si voltò, l'uomo lo osservava con attenzione. Il ragazzino deglutì. L'inventore di giocattoli gli pizzicò teneramente la guancia, scherzoso.
«Non credere a tutto quello che vedono i tuoi occhi. .»
E Dorian seguì la madre e la sorella all'esterno.
«Grazie di tutto e buona notte» concluse Simone.
«È stato un piacere. E non è una formalità» disse cordialmente Lazarus. Sorrise amabile e alzò la mano in segno di saluto.
I Sauvelle si addentrarono nel bosco poco prima di mezzanotte, di ritorno verso la Casa del Capo.
Dorian, silenzioso, era ancora sotto gli effetti della prodigiosa dimora di Lazarus Jann. Irene era persa nei suoi pensieri, lontana dal mondo. E Simone, da parte sua, respirò tranquilla e ringraziò Dio per la fortuna che aveva loro mandato.
Appena prima che la sagoma di Cravenmoore scomparisse alle sue spalle, Simone si voltò a guardarla un'ultima volta. Una sola finestra restava illuminata al secondo piano dell'ala ovest. Oltre le tende, una figura si stagliava immobile. In quel preciso momento, la luce si spense e la grande vetrata fu sommersa dalle ombre.
Rientrata nella sua stanza, Irene si tolse il vestito che le aveva prestato la madre e lo piegò accuratamente sulla sedia. Dalla camera accanto si sentivano le voci di Simone e Dorian. La ragazza spense la luce e si stese sul letto. Ombre azzurrate danzavano sul soffitto come una cavalcata di spettri ballerini nell'aurora boreale. Il sussurro delle onde che si infrangevano sugli scogli accarezzava il silenzio. Irene chiuse gli occhi e cercò inutilmente di prendere sonno.
Era difficile accettare che da quella notte non avrebbe più rivisto il suo vecchio appartamento di Parigi, né sarebbe tornata alla sala da ballo per guadagnarsi i pochi soldi che quei soldati avevano con sé.
Sapeva che le ombre della grande città non potevano raggiungerla fin lì, ma l'orma del ricordo non conosceva frontiere. Si rialzò e si avvicinò alla finestra.
La torre del faro si ergeva nell'oscurità. Concentrò lo sguardo sull'isolotto fra la nebbia incandescente.
Un riflesso fugace parve brillare nella notte, come l'ammicco di uno specchio distante. Pochi attimi dopo, il luccichio comparve di nuovo per poi svanire definitivamente. Irene aggrottò la fronte e si accorse della presenza di sua madre giù in veranda. Simone, avvolta in un pesante maglione, osservava il mare in silenzio. Senza bisogno di vedere il suo volto nel buio, Irene seppe che stava piangendo e che entrambe avrebbero faticato a prendere sonno.
In quella prima notte nella Casa del Capo, dopo quel passo iniziale verso ciò che sembrava un orizzonte di felicità, l'assenza di Armand Sauvelle si faceva più dolorosa che mai.
3. Baia Azzurra
Di tutte le albe della sua vita, nessuna sarebbe sembrata a Irene più luminosa di quella del 22 giugno 1937. Il mare risplendeva come un manto di diamanti sotto un cielo la cui trasparenza lei non avrebbe mai creduto possibile negli anni trascorsi in città. Dalla sua finestra ora si poteva vedere chiaramente l'isolotto del faro, allo stesso modo delle piccole rocce che emergevano dal centro della baia come la cresta di un drago sottomarino. La fila ordinata di case sulla passeggiata del paese, oltre la Spiaggia dell'Inglese, disegnava un acquerello danzante nella caligine che saliva dal molo dei pescatori. Se socchiudeva gli occhi, poteva vedere il paradiso secondo Monet, il pittore prediletto da suo padre.
Irene spalancò la finestra e lasciò che la brezza del mare, impregnata del profumo del salmastro, inondasse la stanza. Lo stormo di gabbiani che abitava la scogliera si voltò a guardarla con una certa curiosità. Nuovi vicini. Non lontano da loro, Irene vide Dorian già sistemato nel suo rifugio preferito tra le rocce, intento a catalogare miraggi con la testa fra le nuvole, o preso da qualunque cosa facesse nelle sue escursioni solitarie.
Irene era già concentrata su cosa indossare per uscire a godersi quella mattina rubata a qualche sogno, quando sentì una voce sconosciuta, allegra e concitata, che proveniva dal piano di sotto. Pochi secondi di attento ascolto rivelarono il timbro calmo e misurato di sua madre che conversava, o meglio, che cercava di collocare dei monosillabi tra i pochi spiragli concessi dalla sua interlocutrice.
Mentre si vestiva, Irene provò a farsi un'idea dell'aspetto di quella persona attraverso la voce. Da piccola, era stato uno dei suoi passatempi preferiti. Ascoltare una voce a occhi chiusi e cercare di immaginare a chi appartenesse: stabilire la statura, il peso, il volto, il carattere. .