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Hannah si alzò e cacciò un urlo che fece catapultare lo stormo di uccellini all'altra estremità della spiaggia. Dopo un po', la vaga figura al timone salutò e l'imbarcazione diresse la prua verso riva.

«Soprattutto, non chiedergli della barca a vela» avvertì Hannah. «E se è lui a iniziare il discorso, non domandargli come l'ha costruita. Può parlarne per ore senza smettere.»

«È una cosa di famiglia. .»

Hannah le rivolse uno sguardo furibondo.

«Credo che ti lascerò qui sulla spiaggia, in pasto ai granchi.»

«Scusa.»

«Accetto le scuse. Ma se io ti sembro chiacchierona, aspetta di conoscere la mia madrina. Il resto della famiglia, al confronto, pare muta.»

«Sono certa che mi farà piacere conoscerla.»

«Ah» replicò Hannah, incapace di trattenere il suo sorriso sornione.

La barca a vela di Ismael superò abilmente la linea dei frangenti e la chiglia penetrò nella sabbia come un coltello. Il ragazzo si affrettò a mollare le cime e ammainò in pochi secondi la vela fino alla base dell'albero. La pratica, evidentemente, non gli mancava. Non appena mise piede a terra, Ismael rivolse a Irene un involontario sguardo dalla testa ai piedi, la cui eloquenza non era inferiore alle sue arti nautiche. Hannah, occhi sbarrati e mezza lingua di fuori in un'espressione di burla, si affrettò a fare le presentazioni; a modo suo, naturalmente.

«Ismael, questa è la mia amica Irene» annunciò amabilmente. «Però non c'è bisogno che te la mangi.»

Il ragazzo diede una gomitata alla cugina e tese la mano a Irene.

«Ciao. .»

Il breve saluto era accompagnato da un sorriso timido e sincero. Irene gli strinse la mano.

«Tranquilla, non è scemo; è il suo modo per dire che è molto felice di conoscerti e tutto il resto»

precisò Hannah.

«Mia cugina parla tanto che a volte penso che consumerà il dizionario» scherzò Ismael. «Immagino che ti abbia già raccomandato di non chiedermi niente della barca a vela. .»

«A dire il vero, no» rispose cautamente Irene.

«Già. Hannah crede che sia l'unico argomento di cui so parlare.»

«Nemmeno con le reti e il sartiame te la cavi male, però di fronte alla barca a vela, caro cugino, non c'è paragone.»

Irene assistette divertita al duello in punta di fioretto nel quale entrambi si compiacevano a sfidarsi.

Non sembrava esserci nessuna malizia o, almeno, né più né meno di quella necessaria ad aggiungere un pizzico di sale alla routine.

«Ho sentito che vi siete sistemati nella Casa del Capo» disse Ismael.

Irene si concentrò sul ragazzo e se ne fece un'idea.

Effettivamente, più o meno sedici anni; la pelle e i capelli mostravano il tempo trascorso in mare. Il fisico rivelava il duro lavoro sulle banchine, e mani e braccia erano segnate da piccole cicatrici, poco comuni tra i giovani parigini. Una cicatrice, più lunga e marcata, gli solcava la gamba destra, partendo da sopra il ginocchio fino alla caviglia. Irene si chiese dove si fosse procurato un simile trofeo. Infine si concentrò sugli occhi, l'unico tratto del suo aspetto che le sembrava fuori dal comune. Grandi e chiari, gli occhi di Ismael sembravano dipinti per celare segreti dietro uno sguardo intenso e vagamente triste.

A Irene ricordava gli sguardi dei soldati senza nome con i quali aveva ballato per tre scarsi minuti al ritmo di un'orchestra di quarta categoria, sguardi che nascondevano paura, tristezza o amarezza.

«Cara, sei in trance?» la interruppe Hannah.

«Stavo pensando che si è fatto tardi. Mia madre sarà preoccupata.»

«Tua madre sarà felice che la lasciate un'ora in pace, però vedi tu» disse Hannah.

«Posso accompagnarti con la barca, se vuoi» si offrì Ismael. «La Casa del Capo ha un piccolo molo tra gli scogli.»

Irene scambiò con Hannah un'occhiata interrogativa.

«Se dici di no, gli spezzerai il cuore. Mio cugino non inviterebbe sulla sua barca nemmeno Greta Garbo, credimi.»

«Tu non vieni?» chiese Irene, un po' imbarazzata.

«Non salirei su quel trabiccolo neanche se mi pagassero. E poi è il mio giorno libero e stasera si balla in piazza. Io, al posto tuo, ci penserei. I buoni partiti sono sulla terraferma. Te lo dice la figlia di un pescatore. Ma non so cosa sto dicendo. Muovetevi, su. E tu, marinaio, è meglio per te che la mia amica arrivi sana e salva a destinazione. Mi hai sentito?»

La barca, che a quanto pareva si chiamava Kyaneos, come recitava la scritta sullo scafo, si inoltrò in mare mentre le sue vele bianche si gonfiavano al vento e la prua solcava l'acqua in direzione del capo.

Ismael, fra una manovra e l'altra, rivolgeva timidi sorrisi alla ragazza, e si sedette al timone solo quando la barca si assestò su una rotta stabile sulla corrente. Irene, aggrappata al bordo, lasciava che le gocce spruzzate dalla brezza le bagnassero la pelle.

Intanto, il vento li sospingeva con forza, e Hannah era diventata una minuscola figura che salutava dalla riva. La rapidità con cui la vela solcava la baia e il rumore del mare contro lo scafo fecero venire a Irene voglia di ridere senza un motivo apparente.

«Prima volta?» domandò Ismael. «Su una barca a vela, voglio dire.»

Irene fece cenno di sì.

«È diverso, vero?»

Lei annuì di nuovo, sorridendo, senza riuscire a distogliere gli occhi dalla grande cicatrice che attraversava la gamba di Ismael.

«Un grongo» spiegò il ragazzo. «È una storia un po' lunga.»

Irene alzò lo sguardo e osservò la sagoma di Cravenmoore che emergeva tra le cime del bosco.

«Che significa il nome della tua barca?»

«È greco. Kyaneos: ciano» spiegò enigmaticamente Ismael.

E dato che Irene corrugava la fronte, senza capire, continuò.

«I greci utilizzavano questa parola per definire l'azzurro scuro, il colore del mare. Quando Omero parla del mare, paragona il suo colore con quello del vino scuro. La parola che usava era questa: kyaneos.»

«Vedo che sai parlare di qualcos'altro, non solo della tua barca e delle reti.»

«Ci provo.»

«Chi te lo ha insegnato?»

«A navigare? Ho imparato da solo.»

«No, dei greci. .»

«Mio padre era un appassionato di storia. Ho ancora qualcuno dei suoi libri.»

Irene rimase zitta.

«Hannah deve averti raccontato che i miei genitori sono morti.»

Lei si limitò ad annuire. L'isolotto del faro si ergeva a un paio di centinaia di metri. Irene lo guardò, affascinata.

«Il faro è chiuso da molti anni. Adesso si usa quello del porto di Baia Azzurra» le spiegò.

«Non ci va più nessuno sull'isola?» chiese Irene.

Ismael negò con la testa.

«E come mai?»

«Ti piacciono le storie di fantasmi?» ribatté per tutta risposta.

«Dipende. .»

«La gente in paese crede che l'isolotto del faro sia stregato o qualcosa del genere. Si dice che una donna sia annegata lì molto tempo fa. C'è chi vede delle luci. Insomma, ogni paese ha le sue dicerie, e questo non è da meno.»

«Luci?»

«Le luci di settembre» disse Ismael mentre oltrepassavano l'isolotto a dritta. «La leggenda, se vuoi chiamarla così, dice che una sera, a fine estate, durante un ballo in maschera in paese, la gente vide una donna mascherata prendere una barca a vela nel porto e inoltrarsi in mare. Alcuni pensano che andasse a un appuntamento segreto con l'amante sull'isolotto del faro; altri, che fuggisse da un crimine inconfessabile. . Come vedi, tutte le spiegazioni vanno bene perché, in realtà, nessuno ha mai saputo chi fosse davvero. Il suo volto era coperto da una maschera. Eppure, mentre attraversava la baia, una terribile tempesta, scatenatasi all'improvviso, trascinò la barca contro le rocce, dove si sfracellò. La misteriosa donna senza volto annegò, o almeno il suo corpo non venne mai ritrovato. Qualche giorno dopo, la marea restituì la sua maschera, che si era sbrindellata sugli scogli. Da allora la gente dice che, durante gli ultimi giorni dell'estate, all'imbrunire, si possono vedere delle luci sull'isola. .»