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Robert Silverberg

Le maschere del tempo

Per A.J. e per Eddie

I

Un memoriale di questo genere dovrebbe incominciare con una specie di affermazione di partecipazione personale, immagino; ero io, ero là, ho sofferto. E in realtà, la mia partecipazione agli eventi dei dodici mesi scorsi è stata grande. Conoscevo l’uomo venuto dal futuro. L’ho seguito nella sua orbita d’incubo intorno al nostro mondo. Ero con lui alla fine.

Ma non all’inizio. E perciò, se debbo raccontare una storia completa di lui, deve essere anche una storia più completa di me. Quando Vornan-19 arrivò nella nostra epoca, io ero ben lontano dal centro degli eventi più straordinari, tanto che per diverse settimane non ne seppi nulla. Però, alla fine venni attirato nel gorgo da lui creato… come siete stati attirati voi, tutti voi, dovunque.

Mi chiamo Leo Garfield. Ho cinquantadue anni, questa sera del 5 dicembre 1999. Sono scapolo — per elezione — e in ottima salute. Abito a Irvine, in California, e ho la cattedra di fisica dell’Università di California. Il mio lavoro riguarda l’inversione temporale delle particelle subatomiche. Non ho mai insegnato in aula. Ho parecchi studenti laureati che considero, come li considera l’università, miei allievi: ma nel nostro laboratorio non viene impartito un insegnamento formale inteso nel senso comune del termine. Ho dedicato gran parte della mia esistenza di adulto alla fisica dell’inversione temporale, e sono riuscito soprattutto a indurre qualche elettrone a girare su se stesso ed a fuggire nel passato. Un tempo lo consideravo un risultato straordinario.

All’epoca dell’arrivo di Vornan-19, un po’ meno di un anno fa, ero giunto a un punto morto nel mio lavoro ed ero andato a rifugiarmi nel deserto a rimuginare, per riuscire a superare quella specie di blocco. Non lo dico per giustificare il fatto di non essere stato subito al corrente della sua venuta. Mi trovavo in casa di amici, un’ottantina di chilometri a Sud di Tucson, in una costruzione completamente moderna, dotata di schermi a parete, datafoni ed altri rispettabili mezzi di comunicazione, e immagino che avrei dovuto seguire gli avvenimenti fin dalla diramazione dei primi notiziari. Se non l’ho fatto, è stato perché non avevo l’abitudine di seguire da vicino l’attualità, e non perché mi trovassi in uno stato d’isolamento. Le mie lunghe passeggiate quotidiane nel deserto erano spiritualmente molto utili; ma al cadere della notte rientravo di nuovo nel genere umano.

Quando racconto come Vornan-19 giunse tra noi, quindi, dovete capire che lo faccio con un certo distacco. Allorché vi fui coinvolto direttamente, la storia era ormai vecchia quanto la caduta di Bisanzio od i trionfi di Attila, ed io l’appresi come avrei appreso un qualunque evento storico.

Vornan-19 si materializzò a Roma nel pomeriggio del 25 dicembre 1998.

A Roma? E il giorno di Natale? Di sicuro l’aveva scelto di proposito, per fare più effetto. Un nuovo Messia, disceso dal cielo quel giorno e in quella città? Ovvio! E banale.

Ma per la verità, lui insisteva a sostenere che era stato accidentale. Sorrideva in quel suo modo irresistibile e si passava i pollici sulla pelle delicata sotto le palpebre, e diceva sottovoce: «Avevo una possibilità su trecentosessantacinque di arrivare in un dato giorno. Ho lasciato che le probabilità andassero come volevano. E poi, che significato ha questo giorno di Natale?»

«È la nascita del Salvatore,» gli risposi io, una volta. «Tanto tempo fa.»

«Il salvatore di che cosa, prego?»

«Dell’umanità. Venne per redimerci dal peccato.»

Vornan-19 fissò quella sfera di vuoto che sembrava aleggiare perpetuamente a poche spanne dalla sua faccia. Immagino che stesse meditando sui concetti della salvazione, della redenzione e del peccato, cercando di dare a quei suoni un qualche significato. Finalmente disse: «E questo redentore dell’umanità… era nato a Roma?»

«A Betlemme.»

«Un sobborgo di Roma?»

«Non precisamente,» dissi io. «Dato che sei comparso il giorno di Natale, tanto valeva che fossi arrivato anche a Betlemme.»

«Lo avrei fatto,» rispose Vornan, «se avessi pianificato tutto per ottenere un certo effetto. Ma io non sapevo niente di questo vostro santo, Leo. Né la sua data di nascita, né il suo luogo di nascita, né il suo nome.»

«Nel tuo tempo Gesù è stato dimenticato, Vornan?»

«Sono un uomo molto ignorante, come sono costretto a ricordarti di continuo. Non ho mai studiato le religioni antiche. È stato un puro caso a portarmi in quel posto e in quel momento.» E la malizia guizzava come un lampo scherzoso su quei suoi lineamenti eleganti.

Forse diceva la verità. Betlemme sarebbe stata certo più sensazionale, se avesse voluto puntare sull’effetto Messia. Come minimo, scegliendo Roma, avrebbe potuto scendere sulla piazza davanti a San Pietro, diciamo nel momento in cui Papa Sisto impartiva la benedizione alle moltitudini. Un guizzo argenteo, una figura che discende, centinaia di migliaia di fedeli in ginocchio, sgomenti e reverenti, il messaggero del futuro che atterra dolcemente, sorridendo, facendo il segno della Croce, irradiando nella moltitudine la corrente silenziosa della buona volontà e della serenità, così adatta a quel giorno di festa. Ma non era stato così. Era apparso invece ai piedi della scalinata di Piazza di Spagna, accanto alla fontana della Barcaccia, in quell’area solitamente invasa dai ricchi compratori che affluiscono verso i negozi di via Condotti. A mezzogiorno del Natale, Piazza di Spagna era quasi deserta, i negozi di via Condotti erano chiusi, e la scalinata non era invasa dai soliti sfaccendati. In alto c’erano alcuni fedeli che si recavano nella chiesa di Trinità dei Monti. Era una fredda giornata d’inverno, e qualche fiocco di neve turbinava nel cielo grigio; un vento tagliente soffiava dal Tevere. Quel giorno, Roma era inquieta. Gli Apocalittici avevano organizzato un tumulto proprio la sera precedente: orde di fanatici con le facce dipinte avevano invaso i Fori, avevano danzato un ballo da Walpurgisnacht fuori stagione intorno alle mura sgretolate del Colosseo, si erano arrampicate sul bruttissimo monumento a Vittorio Emanuele per profanarne il candore con frenetici accoppiamenti. Era la peggiore esplosione d’irrazionalità che si fosse verificata quell’anno a Roma, anche se non era stata violenta quanto le manifestazioni abituali degli Apocalittici a Londra, diciamo, o del resto anche a New York. Tuttavia, era stata domata a grande fatica dai carabinieri che impugnavano sferze neurali e si avventavano implacabili in mezzo ai cultisti urlanti e gesticolanti. Verso l’alba, dicono, la Città Eterna echeggiava ancora di grida degne dei Saturnali. Poi venne il mattino di Gesù bambino, e a mezzogiorno, mentre io dormivo ancora nel tepore invernale dell’Arizona, nel cielo color ferro apparve la figura splendente di Vornan-19, l’uomo venuto dal futuro.

C’erano novantanove testimoni. Erano tutti concordi, per quanto riguardava i dettagli principali.

Egli discese dal cielo. Tutti coloro che furono interrogati affermarono che apparve, descrivendo un arco, al di sopra di Trinità dei Monti, sorvolò la scalinata di Piazza di Spagna, e atterrò nella piazza stessa, a pochi passi dalla fontana della Barcaccia. Tutti i testimoni, virtualmente, dissero che aveva lasciato una scia luminosa nell’aria durante la discesa, ma nessuno affermò di avere veduto un veicolo di qualunque genere. A meno che le leggi della gravità e della caduta dei gravi fossero state abrogate, Vornan-19 viaggiava alla velocità di parecchie centinaia di metri al secondo al momento dell’urto, presumendo che egli fosse stato lanciato da un veicolo librato appena fuori di vista, sopra la chiesa.

Tuttavia lui atterrò eretto, sui due piedi, senza segni visibili di disagio. Più tardi, parlò vagamente di un «neutralizzatore di gravità» che aveva attutito la discesa, ma non fornì particolari, e ormai è molto improbabile che noi si riesca a scoprirne qualcuno.