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Parlando in inglese, Vornan-19 ripeté ciò che aveva detto a Horst Klein. Quelli che lo interrogavano gli contestavano varie affermazioni. Distaccato ed altero, tollerante verso la loro ostilità, Vornan parava i loro affondi. Chi era? Un visitatore. Da dove veniva? Dall’anno 2999. Com’era arrivato lì? Con il trasporto temporale. Perché era lì? Per vedere con i suoi occhi il mondo medievale.

Jack ridacchiò. «Mi piace, questa! Per lui siamo medievali.»

«È un particolare convincente,» disse Shirley.

«Hanno fabbricato tutto i simulatori,» osservai io. «Finora non abbiamo ancora sentito una parola autentica.»

Ma poco dopo le sentimmo. Riassumendo in poche frasi gli eventi degli ultimi dieci giorni, il commentatore del programma spiegò che Vornan-19 si era trasferito nell’appartamento più sontuoso di un elegante albergo di Via Veneto, vi teneva corte ricevendo i visitatori interessati a lui, aveva ottenuto un guardaroba completo di splendidi abiti contemporanei chiedendo ad uno dei sarti più cari di Roma di provvedere alle sue esigenze. L’intero problema della credibilità sembrava completamente superato. Ciò che mi sbalordiva era la disinvoltura con cui Roma pareva accettare alla lettera la sua versione. Ma là credevano veramente che fosse venuto dal futuro? Oppure l’atteggiamento assunto dai romani era un enorme scherzo, una burla colossale?

Lo schermo ci mostrò varie inquadrature dei picchetti degli Apocalittici davanti al suo albergo, e all’improvviso compresi perché quell’impostura aveva successo. Vornan-19 aveva qualcosa da offrire ad un mondo turbato. Se si accettava lui, si accettava anche il futuro. Gli Apocalittici stavano tentando di negare il futuro. Li osservai: le maschere grottesche, i corpi dipinti, le assurde capriole, i cartelli levati alti, che gridavano DIVERTITEVI! LA FINE È VICINA! In preda al furore, agitavano i pugni verso l’albergo e lanciavano sacchetti di luce vivente contro l’edificio: rivoli di fulgido pigmento rosso e azzurro colavano giù per i muri scolorati dalle intemperie. L’uomo venuto dal futuro era la nemesi del loro culto. Un’epoca straziata dalle paure di un’estinzione imminente si era votata a lui facilmente, naturalmente, piena di speranza. In un’era apocalittica, tutti i prodigi erano bene accetti.

«Ieri sera, a Roma,» disse il commentatore, «Vornan-19 ha tenuto la sua prima conferenza stampa in diretta. Trenta giornalisti, in rappresentanza dei principali servizi stampa del globo, lo hanno interrogato.»

Improvvisamente, sullo schermo le immagini si dissolsero in un vortice di colori, dal quale uscì il replay della conferenza stampa. Questa volta non si trattava di una simulazione. Vornan, in carne ed ossa, comparve per la prima volta davanti ai miei occhi.

Mi sconvolse.

Non saprei quale altra parola usare. In considerazione dei miei successivi rapporti con lui, mi sia consentito precisare che a quell’epoca lo consideravo soltanto un impostore ingegnoso. Provavo disprezzo per le sue finzioni e per coloro che, qualunque fosse la ragione, stavano al suo sciocco gioco. Tuttavia, la prima occhiata che diedi al presunto visitatore mi fece un effetto del tutto inaspettato. Lui guardava dallo schermo, rilassato e sereno, e l’effetto della sua presenza era più che tridimensionale.

Era un uomo snello, di statura un po’ inferiore alla media, con le spalle strette e spioventi, il collo sottile, femmineo, e la testa splendidamente modellata, fieramente eretta. I piani del volto erano pronunciati: zigomi netti, tempie angolose, mento forte, naso prominente. La testa era un po’ troppo grande per la sua figura: allungata, anzi più lunga che larga, con una struttura ossea che sarebbe apparsa interessante ad un frenologo perché il cranio era curiosamente prolungato e segnato. Ma i lineamenti, per quanto insoliti, rientravano nella gamma di ciò che ci si può aspettare di vedere per le vie di una qualunque metropoli.

I capelli erano corti e grigi. Anche gli occhi erano grigi. Poteva avere un’età qualsiasi, tra i trenta e i sessant’anni. La pelle non aveva rughe. Indossava una tunica celeste che aveva la sobrietà della grande classe, ed alla gola portava annodato un foulard color ciliegia, l’unico tocco di colore. Appariva tranquillo, aggraziato, sveglio, intelligente, affascinante e un po’ sdegnoso. Mi ricordava molto un lucido siamese bluepoint che avevo conosciuto una volta. Possedeva l’ambivalente sessualità di un superbo gattone, perché c’è qualcosa di sinuosamente femmineo anche nei felini più maschi, e Vornan irradiava la stessa qualità, quell’aria ben curata di grazia da pantera. Non voglio dire che fosse asessuato, ma piuttosto che era androgino, bisessuale, capace di trovare e di dare piacere con chiunque e con qualunque cosa. Insisto nell’affermare che quella fu la mia impressione immediata, e non qualcosa che adesso sto proiettando a ritroso, in base a ciò che scoprii in seguito sul conto di Vornan-19.

Il carattere viene definito soprattutto dagli occhi e dalla bocca; ed era là che s’incentrava il potere di Vornan. Le labbra erano sottili, la bocca un po’ troppo larga, i denti impeccabili, il sorriso abbagliante. Faceva balenare quel sorriso come un faro, irradiando un calore ed un interesse immenso, e altrettanto rapidamente l’interrompeva; allora la bocca diventava una nullità, ed il centro dell’attenzione si spostava sugli occhi gelidi, penetranti. Quelli erano i due aspetti più cospicui della personalità di Vornan: la capacità immediata di chiedere e di ottenere amore, rappresentata dal bagliore irresistibile del sorriso; ed il rapido ritrarsi in un distacco altero e calcolato, rappresentato dallo splendore d’opale degli occhi. Ciarlatano o no, era evidentemente un uomo straordinario, e nonostante il mio disprezzo per quel genere di pagliacciate, mi sentivo costretto ad osservarlo in azione. La versione simulata, trasmessa pochi momenti prima, durante l’interrogatorio da parte dei burocrati, aveva avuto gli stessi lineamenti: ma le mancava il potere. La vista del vero Vornan irradiava un magnetismo immediato che mancava allo zombie computerizzato.

La telecamera indugiò su di lui per una trentina di secondi, quanto bastava per registrare la sua bizzarra capacità di calamitare l’attenzione. Poi effettuò una panoramica intorno alla sala, mostrando i giornalisti. Sebbene io fossi sempre stato molto poco interessato agli eroi dei teleschermi, ne riconobbi almeno una mezza dozzina, ed il fatto che Vornan fosse stato riconosciuto meritevole della presenza dei giornalisti più famosi del mondo era di per se stesso importante e testimoniava l’effetto che aveva già esercitato sull’intero pianeta, mentre Jack e Shirley ed io oziavamo nel deserto. La telecamera continuò la panoramica, mostrando tutti i congegni della nostra era tecnologica: gli alimentatori degli apparecchi di registrazione, il muso tozzo dell’input del computer, la giraffa con i microfoni, la griglia dei sensori di profondità che impedivano alle tre dimensioni della trasmissione di andarsene a spasso, e il piccolo laser al cesio che creava gli effetti d’illuminazione. Di solito, tutti questi apparecchi venivano scrupolosamente nascosti al pubblico, ma per quella registrazione erano stati messi in vista… completavano la scena, si potrebbe dire, per dimostrare che anche noi medievali qualcosa sapevamo fare.

La conferenza stampa ebbe inizio con una voce che, con nitido accento londinese, diceva: «Signor Vornan, vuole avere la gentilezza di precisare le sue affermazioni relative alla sua presenza qui?»

«Certamente. Sono venuto attraverso il tempo per assistere ai processi vitali dell’uomo prototecnologico. Il mio punto di partenza è stato l’anno che voi calcolate come 2999. Intendo visitare i centri della vostra civiltà per essere in grado di farne un completo resoconto, per la gioia e l’istruzione dei miei contemporanei.»