Spensi gli opacizzatori e guardai le onde incalzanti del Pacifico, la fascia rossiccia della spiaggia, le spire bianche di nebbia che si insinuavano fra i pini contorti, là dove la sabbia lasciava posto all’humus. L’odore di chiuso della casa scomparve via via che l’aria odorosa di salmastro e di pini entrava attraverso gli aspiratori. Misi un musicubo nell’apparecchio, e le migliaia di minuscoli altoparlanti incorporati nelle pareti presero a tessere intorno a me una trama di Bach. Mi concessi un sorso di cognac. Per un po’ me ne rimasi seduto tranquillo a sorseggiare il liquore, lasciandomi avvolgere nel bozzolo della musica, e poco a poco mi sentii invadere da un senso di pace. L’indomani mattina mi attendeva un lavoro senza speranza. I miei amici erano angosciati. Il mondo era sconvolto da un culto apocalittico, e adesso era anche assediato da un sedicente emissario delle epoche future. Eppure c’erano sempre stati falsi profeti, gli uomini avevano sempre lottato contro problemi schiaccianti che tormentavano le loro anime, ed i buoni erano sempre stati assillati da dubbi e turbamenti strazianti. Non c’era niente di nuovo. Non provavo pietà per me stesso. Vivi giorno per giorno, pensai, affronta i problemi via via che si presentano, non rimuginare, fai del tuo meglio, e spera in una gloriosa resurrezione. Benissimo. Lascia che venga il domani.
Dopo un po’, mi ricordai di riattivare il telefono. E fu un errore.
Quelli del mio staff sanno che quando sono in Arizona è impossibile comunicare con me. Tutte le telefonate in arrivo vengono dirottate sulla linea della mia segretaria, e lei le sbriga come ritiene opportuno, senza mai consultarmi. Ma se capita qualcosa di veramente importante, lei lo trasmette al registratore del mio telefono di casa, in modo che io ne venga subito informato al rientro. Nell’istante in cui riattivai il telefono, il microregistratore scaricò il suo fardello; il campanello squillò ed io, automaticamente, premetti il pulsante di ricezione. Sullo schermo apparve il viso lungo e ossuto della mia segretaria.
«La sto chiamando il cinque gennaio, dottor Garfield. Ci sono state parecchie chiamate per lei, oggi, da parte di un certo Sanford Kralick detto staff della Casa Bianca. Il signor Kralick vuole parlarle urgentemente ed ha molto insistito perché lo mettessi in comunicazione con lei in Arizona. Ha persino sbraitato e minacciato. Quando finalmente sono riuscita fargli capire che lei non voleva assolutamente essere disturbato, mi ha chiesto di dirle di chiamarlo alla Casa Bianca al più presto possibile, a qualunque ora del giorno o della notte. Ha detto che si trattava di una questione d’importanza vitale per la sicurezza della nazione. Il numero è…»
Tutto qui. Io non avevo mai sentito nominare Sanford Kralick, ma naturalmente gli assistenti presidenziali vanno e vengono. Era forse la quarta volta, quella, che la Casa Bianca mi aveva cercato negli ultimi otto anni, da quando era entrato inavvertitamente a far parte della riserva disponibile dei «santoni» scientifici. Una mia biografia pubblicata su una rivista settimanale per lettori scemi mi aveva presentato come un uomo da tener d’occhio, un avventuriero alle frontiere del pensiero, una forza dominante della fisica americana, e da allora ero stato assunto alla gloria di scienziato-divo. Qualche volta venivo pregato di prestare il mio nome a questa o quella dichiarazione ufficiale sulle Finalità Nazionali o sulla Struttura Etica dell’Umanità; ero stato chiamato a Washington per fare da guida a personalità piuttosto tonte del Congresso nel labirinto della teoria delle particelle, quando si discutevano gli stanziamenti per i nuovi acceleratori; ero stato precettato per far da tappezzeria quando a qualche esploratore dello spazio veniva consegnato il Premio Goddard. Quella stupidità aveva contagiato anche l’ambiente accademico, che avrebbe dovuto essere un po’ più smaliziato; di tanto in tanto mi capitava di fare da attrazione a una assemblea annuale dell’AAAS, o di cercare di spiegare ad una delegazione di oceanografi o di archeologi cosa succedeva sulla mia frontiera del pensiero. Ammetto, con una certa esitazione, che avevo finito per gradire queste assurdità, non tanto per la notorietà che mi assicuravano, ma solo perché mi fornivano un virtuoso pretesto per sfuggire al mio lavoro sempre meno soddisfacente. Ricordate la Legge di Garfield: gli scienziati-divi sono di solito uomini personalmente afflitti da una crisi creativa. Poiché hanno smesso di produrre risultati significativi, s’immettono nel circuito delle apparizioni in pubblico e si beano della reverente ammirazione degli ignoranti.
Tuttavia non era mai capitato che una di quelle chiamate da Washington fosse formulata in termini tanto urgenti. «Di importanza vitale per la sicurezza nazionale,» aveva detto Kralick. Davvero? Oppure era uno di quegli washingtoniani per i quali l’iperbole è la lingua madre?
La mia curiosità si era ridestata. Alla capitale era l’ora di cena. Kralick aveva detto di chiamarlo a qualunque ora. Mi augurai di disturbarlo proprio mentre sedeva a tavola davanti ad una suprême de volaille, in qualche assurdo ristorante affacciato sul Potomac. Mi affrettai a fare il numero della Casa Bianca. Sul mio schermo apparve lo stemma presidenziale, ed una spettrale voce computerizzata mi chiese cosa desideravo.
«Vorrei parlare con Sanford Kralick,» dissi io.
«Un momento, prego.»
Ci volle più di un momento. Ci vollero circa tre minuti, mentre il computer cercava il numero lasciato da Kralick, che era fuori ufficio, lo chiamava e lo faceva venire all’apparecchio. Alla fine, lo schermo mi mostrò un giovanotto dall’aria cupa, sorprendentemente brutto, con la faccia a cuneo e certe arcate sopracciliari sporgenti che avrebbero fatto l’orgoglio di un uomo di Neanderthal. Per me fu un sollievo: mi ero aspettato uno di quegli yes-men plastici e smontabili tanto numerosi a Washington. Qualunque cosa fosse Kralick, almeno non era stato coniato con il solito stampo. La sua bruttezza era un elemento a favore.
«Dottor Garfield,» disse immediatamente, «speravo proprio che mi chiamasse! Ha passato una piacevole vacanza?»
«Eccellente.»
«La sua segretaria merita una medaglia per la sua devozione, professore. In pratica l’ho minacciata di chiamare in causa la Guardia Nazionale se non mi avesse messo in comunicazione con lei. Ma ha rifiutato egualmente.»
«Avevo avvertito quelli del mio staff che avrei vivisezionato chiunque si permettesse di violare la mia intimità, signor Kralick. In cosa posso esserle utile?»
«Può venire a Washington domani? Completamente spesato.»
«Di che cosa si tratta, questa volta? Di una conferenza sulle nostre possibilità di sopravvivere fino al ventunesimo secolo?»
Kralick sorrise seccamente. «Non è una conferenza, dottor Garfield. Abbiamo bisogno della sua collaborazione in senso molto speciale. Vorremmo cooptare qualche mese del suo tempo e assegnarle un incarico che nessun altro al mondo potrebbe svolgere.»
«Qualche mese? Non credo di poter…»
«È indispensabile, signore. Non mi sto limitando a spacciarle le solite chiacchiere. È una faccenda veramente grossa.»
«Posso conoscere qualche particolare?»