«Non per telefono, purtroppo.»
«E lei vorrebbe che accorressi a Washington con un giorno di preavviso per discutere di qualcosa di cui lei non può dirmi niente?»
«Sì. Se preferisce, verrò io in California per discuterne. Ma questo comporterebbe ulteriori ritardi, e abbiamo già perduto tanto tempo che…»
Tesi la mano verso il pulsante che interrompeva la comunicazione, facendo in modo che Kralick se ne accorgesse. «Se non ne ho almeno un’idea, signor Kralick, purtroppo dovrò porre fine a questa conversazione.»
Lui non si lasciò intimidire. «Un solo accenno, allora.»
«Sì?»
«È al corrente del cosiddetto uomo venuto dal futuro che è arrivato qualche settimana fa?»
«Più o meno.»
«Il nostro progetto riguarda proprio lui. Abbiamo bisogno che lei l’interroghi su certe cose. Io…»
Per la seconda volta in tre giorni, ebbi la sensazione di precipitare in un trabocchetto. Pensai a Jack che mi supplicava di parlare con Vornan-19: e adesso il governo mi ordinava di fare la stessa cosa. Il mondo era impazzito.
Interruppi Kralick, precipitosamente: «Sta bene. Domani sarò a Washington.»
V
Lo schermo del telefono inganna. Sullo schermo Kralick mi era sembrato agile e minuto; di persona era alto circa due metri, e quell’aria d’intellettualità che ne aveva reso interessante la brutta faccia era completamente soffocata dalla sua massiccia presenza. Mi venne a prendere all’aeroporto: arrivai poco prima di mezzogiorno, ora di Washington.
Mentre correvamo sull’autotrack verso la Casa Bianca, Kralick continuò a parlare dell’importanza della mia missione e ad esprimermi riconoscenza per la mia collaborazione. Non fornì dettagli su ciò che voleva da me. Ci inserimmo sulla corsia dell’autotrack che portava in centro e passammo dall’entrata riservata della Casa Bianca. Chissà dove, nelle viscere della terra, venni diligentemente scrutato e riconosciuto accettabile, ed ascendemmo nel venerabile edificio. Mi chiedevo se sarebbe stato il Presidente in persona a fornire le istruzioni. In realtà, non ebbi mai occasione di vederlo. Venni introdotto nella Segreteria, assurdamente zeppa di apparecchi di comunicazione. In una capsula di cristallo sul tavolo principale c’era un esemplare zoologico venusiano, un plasmoide violaceo che protendeva instancabilmente i suoi pseudopodi da ameba in una passabile imitazione di vita. Un’iscrizione alla base della capsula spiegava che era stato trovato durante la seconda spedizione. Rimasi sorpreso; non avevo immaginato che ne avessimo scoperti tanti da poterci permettere di lasciarli come fermacarte nei covi degli alti burocrati.
Un ometto dall’aria efficiente, i capelli grigi cortissimi e un abito sgargiante entrò nella stanza, quasi al trotto. Aveva le spalle imbottite come un giocatore di rugby, ed una fila di scintillanti spine cromate gli sporgeva dalla giacca, come fossero vertebre impazzite. Evidentemente, era un uomo che teneva ad essere sempre aggiornato.
«Marcus Kettridge,» disse. «Assistente Speciale del Presidente. Lieto di averla con noi, dottor Garfield.»
Kralick disse: «E il visitatore?»
«È a Copenhagen. Il collegamento è arrivato mezz’ora fa. Vuole vederlo, prima delle spiegazioni?»
«Potrebbe essere un’idea.»
Kettridge aprì una mano: sul palmo c’era una capsula. L’inserì. Si accese uno schermo che prima non avevo notato. Vidi Vornan-19 che passeggiava tra le fantasie barocche dei Giardini di Tivoli, coperti da una cupola per proteggerli dalle intemperie, in modo da non mostrare la minima traccia dell’inverno danese. Guizzi di luci lampeggianti chiazzavano il cielo. Vornan-19 si muoveva come un ballerino, controllando ogni muscolo per darsi il massimo slancio. Al suo fianco camminava una gigantesca bionda sui diciannove anni, con un’aureola di capelli abbaglianti e l’espressione sognante. Indossava un paio di calzoncini che le arrivavano all’inguine, ed una faccia ridottissima sui seni enormi: era praticamente nuda. Si vedevano metri e metri quadrati di carne. Vornan la cinse con un braccio e accostò pigramente la punta di un dito, in successione, alle profonde fossette sulle natiche monumentali della ragazza.
Kettridge disse: «La ragazza è una danese, una certa Ulla Nonsochecosa, e lui l’ha raccattata ieri allo Zoo di Copenhagen. Hanno passato la notte insieme. Fa così dappertutto, sa… come un imperatore: chiama le ragazze al suo letto per comando reale.»
«Non soltanto le ragazze,» rombò Kralick.
«Vero. Vero. A Londra c’è stato anche quel giovane parrucchiere.»
Io guardavo la passeggiata di Vornan-19 per i viali di Tivoli. Una folla di curiosi lo seguiva; era attorniato da una dozzina di robusti poliziotti danesi armati di sferze neurali, alcuni individui che avevano l’aria di funzionari governativi, e mezza dozzina di persone che evidentemente erano giornalisti. Io chiesi: «E come tenete a bada i giornalisti?»
«È una specie di cartello,» scattò Kettridge. «Sei giornalisti in rappresentanza di tutti i mass media. Cambiano ogni giorno. È stata un’idea di Vornan: ha detto che la pubblicità gli piace, ma non gli va di avere attorno un’orda.»
Il visitatore era arrivato ad un padiglione dove stavano ballando dei giovani. Purtroppo il fracasso dell’orchestra era riprodotto con perfetta fedeltà, ed i ragazzi e le ragazze si muovevano con discontinuità meccanica, agitando braccia e gambe. Era uno di quei locali in cui la pista è formata da una serie di marciapiedi mobili, così che tu te ne stai fermo in un posto, eseguendo i movimenti del ballo, e ti trovi di fronte un partner dopo l’altro. Vornan restò a osservare per un po’, come se fosse stupito. Sorrise di quel suo sorriso meraviglioso e rivolse un cenno alla bovina compagna. Salirono sulla pista da ballo. Vidi uno dei funzionari inserire delle monete in una fenditura: evidentemente Vornan non si degnava di toccare il danaro, ed era necessario che qualcuno lo seguisse per pagare i conti.
Vornan e la danese presero posto, uno di fronte all’altra, e si sintonizzarono sul ritmo del ballo. Non era difficile: clamorose spinte del bacino combinate con scalpitii e strette, esattamente come tutti gli altri balli degli ultimi quarant’anni. La ragazza stava a piedi piatti, con le ginocchia piegate, le gambe aperte, la testa inclinata all’indietro; i coni giganteschi dei seni puntavano verso gli specchi sfaccettati del soffitto. Vornan, che evidentemente si divertiva, imitò la posa dei giovani attorno a lui, ginocchia verso l’interno, gomiti verso l’esterno, e cominciò a muoversi. Prese subito il ritmo, dopo un breve momento preliminare d’incertezza, e poi partì, trascinato dal meccanismo sotto la pista, trovandosi di fronte ora ad una ragazza, ora ad un’altra, ed eseguendo gli espliciti movimenti erotici che ci si poteva aspettare da lui.
Quasi tutte le ragazze, a quanto sembrava, sapevano chi era. Gli ansiti e le espressioni di reverenza lo rendevano chiaro. Il fatto che una celebrità mondiale si aggirasse tra le masse creava una certa confusione, facendo perdere il ritmo alle ragazze: una, semplicemente, smise di muoversi e restò immobile, estatica, a fissare Vornan per tutti i novanta secondi in cui se lo trovò di fronte. Ma non ci furono difficoltà o guai per i primi sette od otto giri. Poi Vornan si trovò a ballare con una graziosa ragazza bruna e grassottella, sui sedici anni, che diventò completamente catatonica per il terrore. S’immobilizzò e si agitò a sussulti, e riuscì ad arretrare oltre il segnale di guardia elettronico, sulla parte posteriore della sua fascia mobile. Un cicalino suonò per avvertirla, ma lei non lo sentì neppure, e dopo un attimo si trovò con un piede su ciascuno dei due marciapiedi avviati nelle due direzioni opposte. Cadde, con la gonna cortissima che si alzò mostrando le rosee cosce paffute, ed altro, perché come quasi tutte le ragazze non portava indumenti intimi. Spaventata, si afferrò alle gambe del giovanotto che le era più vicino.