Kettridge, senza sorridere, fece: «Eravamo convinti che, mettendola a fianco del visitatore, lei avrebbe trovato il modo di estorcergli qualche informazione sul processo di spostamento nel tempo che ha usato. Pensavamo che per lei avesse un grande interesse, come scienziato… e inoltre, sarebbe stato di grande valore per la nazione.»
«Sì,» risposi. «È verissimo. Mi piacerebbe torchiarlo a dovere sull’argomento.»
«E allora,» chiese Kralick, «perché dovrebbe essere ostile all’idea di accettare l’incarico? Abbiamo scelto uno storico famoso per scoprire l’andamento degli eventi nel nostro futuro, uno psicologo che tenterà di controllare l’autenticità del racconto di Vornan, un antropologo che cercherà gli sviluppi culturali, e così via. La commissione avrà il duplice compito di esaminare la legittimità delle credenziali di Vornan e di farsi dire da lui tutto ciò che può avere valore per noi, presumendo che sia davvero ciò che dice di essere. Non so immaginare un compito che possa avere un’importanza più grande per l’umanità, in questo momento.»
Chiusi gli occhi per un istante. Mi sentivo debitamente mortificato. Kralick era sincero nei suoi slanci, e lo era anche Kettridge, nel suo stile concitato e un po’ pesante. Avevano veramente bisogno di me. E non era vero che io avevo buoni motivi per desiderare di sbirciare dietro la maschera di Vornan? Jack mi aveva supplicato di farlo, senza immaginare che mi sarebbe stato tanto facile.
E allora, perché esitavo?
Capivo benissimo il perché. C’era di mezzo il mio lavoro, e la possibilità, sia pure vaga, che Vornan-19 fosse davvero un viaggiatore nel tempo. L’uomo che cerca di inventare la ruota non è particolarmente ansioso di apprendere i dettagli di un’auto a turbina che fa gli ottocento chilometri orari. Avevo dedicato metà dell’esistenza ai miei elettroni invertiti, e adesso c’era Vornan-19, il quale affermava di aver scavalcato i secoli: nel profondo della mia anima preferivo non pensare a lui. Però Kralick e Kettridge avevano ragione: ero l’uomo più adatto per fare parte di quella commissione.
Dissi loro che accettavo.
Mi espressero profusamente la loro gratitudine, e poi sembrarono disinteressarsi di me, come se non intendessero sprecarsi per qualcuno che aveva già firmato per arruolarsi. Kettridge sparì, e Kralick mi assegnò un ufficio da qualche parte, in uno dei sotterranei della Casa Bianca. Minuscole bolle di luce viva galleggiavano in una vasca fissata al soffitto. Mi disse che avevo pieno diritto d’accesso ai servizi segretariali della Casa Bianca, e mi mostrò dove erano gli output e gli input del cervello elettronico. Potevo fare tutte le telefonate che volevo, disse, e servirmi di tutta l’assistenza di cui avevo bisogno per preparare la relazione sui viaggi nel tempo per il Presidente.
«Abbiamo già provveduto ad alloggiarla,» mi disse Kralick. «Lei ha un appartamento proprio dall’altra parte del parco.»
«Pensavo di ritornare in California questa sera per sistemare i miei affari.»
«È meglio di no. Abbiamo a disposizione soltanto settantadue ore, lo sa, prima che Vornan-19 arrivi a New York. Abbiamo bisogno di impiegare questo tempo nel modo più efficiente.»
«Ma ero appena rientrato dalle vacanze!» protestai. «E sono ripartito appena arrivato. Devo lasciare istruzioni per i miei collaboratori… dare disposizioni per il laboratorio…»
«Tutto questo può sbrigarlo per telefono, non è vero, dottor Garfield? Non si preoccupi per le spese. Preferiamo che lei passi due o tre ore in linea con la California, piuttosto che perda tra andata e ritorno quel poco tempo che ci resta.»
Lui sorrideva. Sorrisi anch’io.
«D’accordo?» mi chiese.
«D’accordo.»
Era molto chiaro. Le mie possibilità di scelta erano scadute nel momento in cui avevo accettato di far parte della commissione. Adesso ero entrato nel Progetto Vornan, e non avevo possibilità d’azione indipendente. Avrei avuto solo la libertà che il governo poteva concedermi, fino alla conclusione dell’intera faccenda. La cosa più strana era che non me ne risentivo, io che ero sempre stato il primo a firmare le petizioni contro ogni limitazione delle libertà, io che mi ero sempre considerato non come un uomo di un’organizzazione, ma piuttosto come uno scienziato indipendente, unito all’Università da legami tutt’altro che stretti. Immagino fosse un modo subliminale per evitare le cose spiacevoli che mi attendevano nel mio laboratorio, quando fossi tornato a lottare con i soliti problemi irrisolti.
L’ufficio che mi avevano assegnato era molto comodo. Il pavimento di vetro spugnoso ed elastico, le pareti argentate e riflettenti, il soffitto splendeva di colori. Era ancora abbastanza presto per chiamare la California e trovare qualcuno in laboratorio. Informai l’amministratore dell’Università, per prima cosa, che ero stato chiamato al servizio del governo. Non se la prese. Poi parlai con la mia segretaria e le dissi che dovevo estendere la mia assenza per un periodo indefinito. Diedi disposizioni per il lavoro dello staff e per il controllo dei progetti di ricerca dei miei allievi. Discussi il problema dell’inoltro della posta e della manutenzione della mia casa con il servizio pubblico locale, e sullo schermo comparve un dettagliato modulo d’autorizzazione. Dovevo indicare le cose che volevo venissero fatte e quelle che non volevo. L’elenco era lungo:
Falciare il prato
Controllare l’isolamento termico e meteorologico
Inoltrare posta e comunicazioni
Provvedere al giardinaggio
Controllare i danni causati dal maltempo
Informare le organizzazioni di vendita
Pagare i conti
E via di seguito. Segnai quasi tutto e dissi di mandare il conto del servizio al governo degli Stati Uniti. Una cosa l’avevo già imparata da Vornan-19: non avevo intenzione di pagare un solo conto di tasca mia fino a quando avessi concluso quel lavoro.
Appena ebbi sistemato i miei affari, feci una chiamata personale in Arizona. Rispose Shirley. Mi sembrava tesa e innervosita, ma parve sciogliersi un po’ quando vide la mia faccia sullo schermo. «Sono a Washington,» le dissi.
«A far cosa, Leo?»
Glielo spiegai. In un primo momento, lei pensò che volessi scherzare, ma le assicurai che stavo dicendo la verità.
«Aspetta,» fece. «Ti chiamo Jack.»
Si allontanò dal telefono. La prospettiva cambiò, e invece della solita inquadratura a mezzobusto, lo schermo mi mostrò la piccola immagine di tutta Shirley, nuda, di tre quarti. Era sulla porta, con la schiena verso la telecamera, appoggiata allo stipite in modo che un seno, come un globo maturo, appariva al di sotto del braccio. Sapevo che agenti del governo controllavano la chiamata, e m’infuriava l’idea che potessero godere gratuitamente lo spettacolo della bellezza di Shirley. Mi mossi per togliere l’immagine, ma era troppo tardi: lei se ne era andata e sullo schermo era comparso Jack.
«Cosa?» domandò. «Shirley mi ha detto…»
«Fra qualche giorno parlerò con Vornan-19.»
«Non c’era bisogno che ti disturbassi, Leo. Ho pensato alla nostra conversazione. Sento di aver fatto la figura dello stupido. Ho detto parecchie cose… beh, un po’ da squilibrato, e non avrei mai pensato che tu piantassi tutto quanto e ti precipitassi a Washington per…»
«Non è andata proprio così, Jack. Sono stato precettato. Importanza vitale per la sicurezza nazionale, roba del genere. Comunque, ci tenevo a dirti che, dal momento che sono qui, cercherò di aiutarti come mi hai chiesto.»
«Grazie, Leo.»
«È tutto. Cerca di stare tranquillo. Forse tu e Shirley avete bisogno di abbandonare il deserto, per un po’.»
«Più avanti, forse,» disse lui. «Vedremo come si metteranno le cose.»
Gli strizzai l’occhio e tolsi la comunicazione. Non riusciva a imbrogliarmi con tutta la sua finta gaiezza. Quello che gli bolliva dentro qualche giorno prima c’era ancora, anche se lui cercava di giustificarsi dicendo che era una sciocchezza. Aveva bisogno di aiuto.