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E un’altra cosa dovevo fare. Aprii l’input e cominciai a dettare la mia relazione sull’inversione temporale. Non sapevo quante copie ne volessero, ma pensai che non aveva molto importanza. Cominciai a parlare. Un punto di brillante luce verde danzava sullo schermo di vetro lattiginoso dell’output del calcolatore, battendo a macchina le mie parole via via che le pronunciavo. Lavorando esclusivamente a memoria, senza prendermi la briga di chiedere ai magazzini dei dati i testi delle mie pubblicazioni, dettai un rapido sunto non troppo tecnico delle mie opinioni sull’inversione temporale. Il senso era che, sebbene l’inversione temporale, a livello subatomico, fosse già stata realizzata, secondo tutte le teorie fisiche a me note non sembrava possibile che un essere umano potesse viaggiare a ritroso nel tempo arrivando vivo a destinazione, indipendentemente dalla fonte d’energia usata per trasportarlo. Corroborai l’affermazione con alcuni pensieri sull’inerzia cumulativa temporale, sull’estensione della massa in un continuum inverso, e sull’annientamento dell’antimateria. E terminai concludendo, abbastanza esplicitamente, che Vornan-19 era senza dubbio un impostore.

Poi trascorsi qualche istante contemplando le mie parole splendenti nel brillio verde, fulgido ma temporaneo, dello schermo. Meditai sul fatto che il Presidente degli Stati Uniti, per motivi politici, aveva deciso di ritenere convincenti le affermazioni di Vornan-19. Mi chiesi se era proprio il caso di dire in faccia al Presidente che si rendeva complice di una frode. Mi chiesi se non sarebbe stato meglio rinunciare alla mia onestà per evitare scrupoli di coscienza a quell’alto personaggio, e poi lasciai perdere e ordinai al computer di stampare quel che avevo dettato e di trasferirlo agli schedari presidenziali.

Un minuto dopo la mia copia personale uscì dall’output, battuta, ben marginata e ben spillata. La piegai, me la misi in tasca e chiamai Kralick.

«Ho finito,» gli annunciai. «E adesso vorrei uscire di qui.»

Venne a prendermi. Era pomeriggio inoltrato, cioè era passato da poco mezzogiorno secondo il fuso orario cui era abituato il mio metabolismo, e avevo fame. Chiesi a Kralick dove potevo andare a pranzo. Rimase un po’ perplesso fino a quando capì il mio problema dei fusi orari. «Per me è quasi ora di cena,» disse. «Senta, perché non andiamo dall’altra parte della strada a bere qualcosa? Poi l’accompagnerò al suo appartamento in albergo. E se va bene, posso combinarle una cena. Una cena un po’ in anticipo, anziché un pranzo in ritardo.»

«Per me va bene,» dissi.

Come Virgilio, ma al contrario, mi guidò verso l’alto per i labirinti sotterranei della Casa Bianca, e uscimmo a riveder le stelle nel crepuscolo. Mentre io ero rimasto sottoterra, c’era stata una leggera nevicata. Le resistenze che fondevano la neve ronzavano sui marciapiedi, e gli spazzaneve-robot aleggiavano sognanti per le strade, aspirando la fanghiglia con i lunghi tubi avidi. Cadeva ancora qualche fiocco. Le luci dei grattacieli di Washington brillavano come gemme contro il cielo azzurrocupo del tardo pomeriggio. Kralick ed io lasciammo il giardino della Casa Bianca passando da un cancello laterale e tagliammo Pennsylvania Avenue con un movimento da alfiere degli scacchi, per raggiungere un piccolo bar illuminato discretamente. Kralick piegò con difficoltà le lunghe gambe sotto il tavolino.

Era uno di quei locali automatici che qualche anno prima andavano tanto di moda: una console con i comandi ad ogni tavolo, un mixologo computerizzato nel retro, ed una schiera complessa di rubinetti. Kralick mi chiese cosa volevo bere, e io dissi rum filtrato. Premette i tasti, e poi ordinò scotch and soda per sé. S’illuminò il quadro del credito; Kralick infilò la sua carta nella fenditura. Un attimo dopo, le bevande uscirono gorgogliando dai rubinetti.

«Salute,» disse.

«Altrettanto.»

Lasciai che il liquore mi scendesse per la gola. Andò giù facilmente; quando finì nello stomaco non trovò niente di sostanzioso cui mescolarsi, e cominciò a infiltrarsi nel mio sistema nervoso. Chiesi spudoratamente il bis mentre Kralick era ancora alle prese con il primo bicchiere. Mi lanciò un’occhiata pensierosa, come dicesse a se stesso che nulla, nel mio fascicolo personale, mi indicava come alcolizzato. Mi ordinò comunque da bere.

«Vornan è andato ad Amburgo,» disse all’improvviso. «Sta studiando la vita notturna lungo la Reepersbahn.»

«Mi pareva che fosse stata chiusa già qualche anno fa.»

«La tengono in attività come attrazione per i turisti, con tanto di marinai fasulli che scendono a terra in franchigia e provocano risse. Dio sa come ha fatto Vornan a sentirne parlare, ma può scommettere che questa notte ci sarà una magnifica rissa autentica.» Diede un’occhiata all’orologio. «Sono avanti di sei ore, rispetto a noi. Domani sarà a Bruxelles. Poi a Barcellona, per assistere ad una corrida. E poi, New York.»

«Dio ci aiuti.»

«Dio,» disse Kralick, «farà finire il mondo tra undici mesi e… quanto? Ah, e sedici giorni.» Rise, con voce impastata. «Mai troppo presto. Mai troppo presto. Se si fosse deciso a farlo domani, non avremo dovuto sopportare Vornan-19.»

«Non mi dica che lei è un cripto-apocalittico!»

«Io sono un cripto-alcolizzato,» rispose lui. «Ho cominciato a bere questa roba all’ora di pranzo e mi gira la testa, Garfield. Lo sa, una volta facevo l’avvocato. Giovane, brillante, ambizioso, uno studio decentemente avviato. Perché mai mi è venuto in mente di lavorare per il governo?»

«Dovrebbe ordinare qualcosa per farsi passare la sbronza,» dissi, cautamente.

«Ha proprio ragione, sa?»

Ordinò una pillola e poi, ripensandoci, ordinò un terzo rum per me. Mi sentivo i lobi delle orecchie in fiamme. Tre rum in dieci minuti? Beh, anch’io potevo sempre prendere una pillola. Quella ordinata da Kralick arrivò, e lui la buttò giù; fece una smorfia, mentre il suo metabolismo passava attraverso l’accelerazione che avrebbe eliminato l’eccesso di alcool. Per un lungo istante restò li seduto, a rabbrividire. Poi si riprese.

«Chiedo scusa. Mi ha preso un mezzo colpo.»

«Si sente meglio?»

«Molto,» rispose. «Ho detto qualcosa che non dovevo?»

«Ne dubito. A parte essersi augurato che il mondo finisse domani.»

«Solo malumore. Non per motivi religiosi. Le dispiace se la chiamo Leo?»

«Lo preferirei.»

«Benissimo. Senti, Leo, adesso sono sobrio, e quello che sto dicendo è la sacrosanta verità. Ti ho rifilato un incarico schifoso, e me ne dispiace. Se c’è qualcosa che posso fare per renderti l’esistenza più sopportabile mentre fai da balia a questo ciarlatano del futuro, chiedi pure. Tanto, non è mio il danaro che spendo. So che ami certe piccole comodità, e le avrai.»

«Te ne sono molto grato… ah, Sanford.»

«Sandy.»

«Sandy.»

«Per esempio, questa sera. Sei piombato qui senza quasi preavviso, e immagino che non hai avuto la possibilità di metterti in contatto con qualche amico. Ti andrebbe di avere compagnia per cena… e dopo?»

Era molto gentile da parte sua, provvedere alle esigenze dell’anziano scienziato scapolo. «Grazie,» risposi, «ma credo che per stasera mi arrangerò. Voglio rimettere in ordine le mie idee, abituarmi al vostro fuso orario…»

«Non sarà difficile.»

Scrollai le spalle. Mangiucchiammo piccoli cracker alle alghe e ascoltammo il sibilo lontano degli altoparlanti dell’impianto sonoro del bar. Parlava quasi sempre Kralick. Citò i nomi di alcuni dei miei colleghi della Commissione Vornan: tra gli altri c’erano F. Richard Heyman, lo storico, e Helen McIlwain, Pantropologa, e Morton Fields di Chicago, lo psicologo. Annuii con aria saggia. Approvavo.