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«Non ne so assolutamente niente. Arrivederci, Sidney.»

«Martha.»

«Per me sarai sempre Sidney.»

Risigillai la porta e chiesi al centralino dell’albergo se era arrivata qualche chiamata per me, dopo che lei se ne fu andata. Come avevo previsto, c’erano state dozzine di telefonate, e tutte erano state respinte. La centralinista voleva sapere se ero disposto a parlare con il signor Kralick. Dissi di sì.

Lo ringraziai per Sidney. Kralick rimase un pochino perplesso. Poi mi chiese: «Potresti venire alla prima riunione della commissione, alle due, alla Casa Bianca? Una specie di incontro preliminare, tanto per prendere contatto.»

«Certamente. Che notizie da Amburgo?»

«Brutte. Vornan ha causato disordini. È entrato in un bar frequentato da duri e ha fatto un discorso. In sostanza ha detto che la più grande conquista storica del popolo tedesco era il Terzo Reich. Sembra che sia tutto quello che sa della Germania, e ha cominciato ad elogiare Hitler confondendolo con Carlomagno; le autorità lo hanno trascinato fuori appena in tempo. Mezzo isolato pieno di nightclub è andato distrutto dalle fiamme prima che arrivassero i mezzi antincendio.» Kralick sogghignò. «Forse non dovrei dirti queste cose. Sei ancora in tempo per piantarci in asso.»

Sospirai e dissi: «Oh, non preoccuparti, Sandy, ormai faccio parte della squadra. È il meno che posso fare per te… dopo Sidney.»

«Ci vediamo alle due. Verremo a prenderti e ti faremo passare per il tunnel, perché non voglio che quei pazzi dei mass media ti divorino. Stattene tranquillo fino a quando verrò a bussare alla tua porta.»

«Bene,» dissi io. Posai il ricevitore, mi voltai, e vidi qualcosa che sembrava una pozzanghera di fanghiglia verde insinuarsi sotto la porta e dilagare nella stanza.

Non era fanghiglia. Era un pickup audio fluido, pieno di orecchie monomolecolari. Mi spiavano dal corridoio. Andai in fretta alla porta e pestai il tacco sulla pozza. Una voce sottile disse: «Non faccia così, dottor Garfield. Vorrei parlarle. Sono dell’Amalgamated Network di…»

«Se ne vada.»

Finii di schiacciare la pozzanghera con il tacco. Asciugai il resto con una salvietta. Poi mi chinai verso il pavimento e dissi alle orecchie che potevano essere rimaste appiccicate al legno: «La risposta è sempre ’No comment’. Se ne vada.»

Finalmente mi ero sbarazzato di lui. Regolai il sigillo di privacy in modo che non fosse possibile infilare sotto la porta neppure qualcosa che avesse lo spessore di una sola molecola, e aspettai che la mattina passasse. Poco prima delle due, Sandy Kralick venne a prendermi e mi fece passare per il tunnel sotterraneo in comunicazione con la Casa Bianca. Washington è un labirinto di passaggi che s’intrecciano nel sottosuolo. Mi hanno detto che si può andare dappertutto, se si conoscono i percorsi e se si conoscono le parole d’ordine quando si viene interpellati attraverso gli schermi televisivi. Le gallerie sono stratificate. Ho sentito dire che c’è un postribolo automatizzato, sei livelli sotto il Campidoglio, riservato ai membri del Congresso; e sembra che lo Smithsonian Institute svolga esperimenti di mutagenesi da qualche parte, sotto il Mall, generando mostruosità biologiche che non vedono mai la luce del giorno. Come tutto ciò che si sente raccontare della capitale, immagino che queste storie siano apocrife; immagino che la verità, se la si sapesse, risulterebbe cinquanta volte più orribile delle favole. Questa è veramente una città diabolica.

Kralick mi condusse in una stanza dalle pareti di bronzo anodizzato, da qualche parte sotto l’Ala Ovest della Casa Bianca. C’erano già quattro persone. Ne riconobbi tre. I quartieri alti dell’establishment scientifico sono popolati da una cricca poco numerosa ed autoperpetuantesi. Ci conosciamo tutti, grazie ai simposi interdisciplinari di vario tipo. Riconobbi Lloyd Kolff, Morton Fields ed Aster Mikkelsen. La quarta persona si alzò, impettita, e disse: «Non mi pare che si siamo mai incontrati, dottor Garfield. F. Richard Heyman.»

«Sì, naturalmente; Spengler, Freud e Marx, non è vero? Lo ricordo con molto piacere.» Gli strinsi la mano. I polpastrelli erano umidi, e immagino che fosse umido anche il palmo, ma lui stringeva la mano in quello strano modo diffidente, tipico dell’Europa centrale, con cui un individuo sospettoso prende le dita dell’altro con fare molto remoto, invece di poggiare palmo contro palmo. Ci scambiammo frasi fatte per esprimere la gioia di aver fatto reciproca conoscenza.

Datemi il massimo dei voti per la mia insincerità. Non avevo una grande opinione del libro di F. Richard Heyman, che mi era parso ponderoso e nel contempo superficiale, un risultato molto raro; non mi piacevano le sue occasionali recensioni, scritte per i rotocalchi, che inevitabilmente erano feroci stroncature dei suoi colleghi; non mi piaceva il suo modo di stringere la mano, e non mi piaceva neppure il suo nome. Come avrei dovuto chiamare un «F. Richard», quando avessimo preso a darci del tu ed a chiamarci per nome? «F»? «Dick»? O «mio caro Heyman»? Era un uomo basso e tozzo, con una testa tonda, una frangia di ruvidi capelli rossi lungo la metà posteriore del cranio, e una folta barba rossiccia che scendeva giù per le guance, fin sulla gola, per nascondere un mento che, ne sono sicuro, era rotondo come la sommità della testa. La bocca da squalo, con le labbra sottili, si scorgeva appena tra quelle fronde. Gli occhi erano acquosi, antipatici.

Non provavo ostilità, invece, nei confronti degli altri membri della commissione. Li conoscevo vagamente, sapevo che erano personaggi molto importanti nelle rispettive professioni, e non mi ero mai trovato in disaccordo con loro nei vari consessi scientifici in cui avevamo avuto occasione d’incontrarci. Morton Fields, dell’Università di Chicago, era uno psicologo, affiliato alla nuova cosiddetta «scuola cosmica», che a quanto ne avevo capito io doveva essere una sorta di buddhismo laico. I suoi aderenti cercavano di districare i misteri dell’anima ponendola in rapporto con l’universo nella sua totalità, il che mi sembrava piuttosto pretensioso. Di persona, Fields sembrava un dirigente industriale in ascesa; un fisico asciutto e atletico, zigomi alti, capelli color sabbia, labbra contratte con gli angoli rivolti in basso, mento sporgente, occhi chiari e indagatori. Mi pareva di vederlo passare dati ad un computer per quattro giorni la settimana e trascorrere i suoi week-end prendendo spietatamente a mazzate una palla da golf. Eppure non era il tipo pedante che sembrava.

Lloyd Kolff, lo sapevo, era il decano dei filologi; un uomo tozzo, massiccio, oltre la settantina, con una faccia segnata e florida e le braccia lunghissime, da gorilla. La sua base operativa era l’Università di Columbia, ed era molto amato dagli studenti laureati per la sua robusta terrestrialità: conosceva più oscenità sanscrite lui di qualunque altro uomo degli ultimi trenta secoli, e le usava tutte, vivacemente e frequentamente. Uno degli interessi secondari di Kolff era la poesia erotica di tutti i secoli e di tutte le lingue. Si diceva che avesse corteggiato sua moglie, filologa anche lei, mormorandole scottanti vezzeggiativi in persiano medio. Sarebbe stato prezioso per il nostro gruppo, un valido contrappeso per quel presuntuoso che sospettavo fosse F. Richard Heyman.

Aster Mikkelsen era una biochimica dell’Università Statale del Michigan, e faceva parte del gruppo che si occupava del progetto della sintesi della vita. L’avevo conosciuta l’anno prima, alla conferenza dell’AAAS a Seattle. Sebbene il suo nome avesse un suono scandinavo, non era una di quelle Giunoni nordiche che mi piacciono scandalosamente. Bruna, ossuta, snella, aveva un’aria fragile e timida. Non superava il metro e cinquantadue, e non credo che pesasse più di quarantacinque chili. Penso che fosse sulla quarantina, ma sembrava più giovane. I suoi occhi avevano un brillio guardingo, i lineamenti erano eleganti. Gli abiti erano una casta sfida, e modellavano la sua figura efebica come per chiarire che lei non aveva nulla da offrire ai voluttuosi. Nella mia mente balenò incogrua la visione di Lloyd Kolff e di Aster Mikkelsen a letto insieme: le pieghe carnose del corpo pesante e peloso di lui spinto contro la forma esile e fragile di lei, le cosce magre e i polpacci affusolati di Aster che cercavano tormentosamente di contenere la forma straboccante, le caviglie premute profondamente in quella ciccia copiosa. L’assurdo abbinamento fisico era così mostruoso che dovetti chiudere gli occhi. Quando osai riaprirli, Kolff ed Aster erano ritti fianco a fianco come prima, lo ziggurath di carne accanto alla ninfa elegante, ed entrambi mi scrutavano allarmati.