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Il banchetto si concluse verso mezzanotte. Una fila zigzagante di bottiglie di vino vuote abbelliva la tavola. Comparvero degli agenti governativi, per annunciarci che ci avrebbero accompagnati al tunnel.

Venni a sapere che Kralick ci aveva distribuiti in alberghi sparsi per la città. Fields fece una piccola scenata da ubriaco perché voleva accompagnare Aster, e lei se ne sbarazzò in qualche modo. Helen e Kolff se ne andarono insieme, a braccetto; quando salirono in ascensore vidi che lui infilava la mano sotto il sudario di capelli che avviluppava l’antropologa. Tornai nel mio albergo. Non accesi lo schermo per scoprire cosa aveva combinato quella sera Vornan-19 in Europa. Sospettavo, giustamente, che ne avrei avuto abbastanza delle sue trovate con il passare delle settimane, e che potevo rinunciare alle notizie di quella sera.

Dormii male. Helen McIlwain ossessionò i miei sogni. Non avevo mai sognato, prima, di venire circonciso da una strega rossochiomata vestita di un manto di capelli umani. Spero di non fare più quel sogno… mai più.

VII

Il giorno dopo, a mezzodì, noi sei — più Kralick — salimmo a bordo della sotterranea intercittà per New York… non-stop Un’ora dopo arrivammo, giusto in tempo per assistere ad una dimostrazione degli Apocalittici davanti al terminal della sotterranea. Avevano saputo che Vornan-19 stava per arrivare a New York, e facevano un po’ di baccano preliminare.

Salimmo nell’immenso atrio del terminal e trovammo un mare di figure irsute e sudate. Striscioni di luce viva svolazzavano nell’aria, proclamando slogan insensati o pure e semplici oscenità. I poliziotti del terminal stavano cercando disperatamente di mantenere l’ordine. Sul baccano predominava il tuono cupo di un canto apocalittico, incoerente e sbrindellato, un grido d’anarchia in cui riuscivo a distinguere soltanto le parole «fine del mondo… fiamme… fine del mondo…»

Helen McIlwain era affascinata. Gli Apocalittici, per lei, erano interessanti quanto gli stregoni tribali, e infatti cercò di squagliarsela per assaporare l’esperienza a distanza ravvicinata. Kralick la pregò di tornare indietro, ma ormai era tardi: Helen si precipitò verso la folla. Un barbuto profeta della fine del mondo l’abbrancò e le strappò la rete di dischetti di plastica che costituiva il suo abbigliamento, quella mattina. I dischetti schizzarono via in tutte le direzioni, mettendo allo scoperto un pezzo di Helen, per una ventina di centimetri, sul davanti, dalla gola alla cintura. Si affacciò un seno nudo, sorprendentemente sodo in una donna della sua età, sorprendentemente sviluppato per una donna magra come lei. Helen aveva gli occhi vitrei per l’eccitazione; si aggrappò al suo nuovo conquistatore, cercando di estrargli l’essenza dell’Apocalittismo mentre quello la scrollava, la graffiava e la prendeva a pugni. Spinti dalle insistenze di Kralick, tre robusti poliziotti si avventurarono al salvataggio. Helen accolse il primo con un calcio all’inguine che lo fece arretrare barcollando: l’uomo sparì sotto una marea di fanatici avanzanti e non lo vedemmo ricomparire. Gli altri due brandirono le sferze neurali e le usarono per disperdere gli Apocalittici. Si levarono urla di furore, grida stridule di sofferenza, sul sottofondo di «fine del mondo… fiamme… fine del mondo…» Una truppa di ragazze nude, con le mani sui fianchi, ci sfilò davanti come un corpo di ballo, nascondendomi la visuale; quando riuscii a vedere di nuovo in mezzo all’orda, mi accorsi che i poliziotti avevano fatto il vuoto intorno ad Helen e la stavano portando indietro. Sembrava trasfigurata da quell’esperienza. «Meraviglioso,» continuava a dire, «meraviglioso, meraviglioso, che frenesia orgiastica!» Le pareti echeggiavano di «fine del mondo… fiamme… fine del mondo…»

Kralick offrì ad Helen la sua giacca, ma lei la rifiutò con un cenno: non si preoccupava di essere seminuda, o forse si preoccupava di farsi vedere bene. Non so come, riuscirono a tirarci fuori. Mentre varcavamo la porta, udii un terribile urlo di dolore levarsi più forte di tutti gli altri suoni, il grido, immagino, di un uomo squartato vivo. Non ho mai scoperto chi avesse lanciato quell’urlo, né perché.

«…fine del mondo…» udii ancora, e poi uscimmo.

Le macchine ci aspettavano. Ci condussero in un albergo nel centro di Manhattan. Al cento venticinquesimo piano avevamo una splendida vista dell’area di risanamento del centro. Helen e Kolff, spudoratamente, presero una stanza matrimoniale; ognuno degli altri ne ebbe una singola. Kralick fornì a ciascuno un grosso pacco di bobine che suggerivano i metodi per trattare con Vornan. Misi via le mie senza guardarle. Dalla finestra vidi, sulla strada lontana, una marea frenetica di figure che si muoveva sul livello pedonale: gruppi che si formavano e si scioglievano, qualche urtone, braccia che gesticolavano, i movimenti di formiche furibonde. Di tanto in tanto, un cuneo volante arrivava ruggendo dal centro della via. Erano Apocalittici, pensai. Da quanto tempo continuava quella storia? Avevo perduto ogni contatto con il mondo: non avevo capito che in ogni momento, in ogni città, si era esposti all’assalto del caos. Mi allontanai dalla finestra.

Morton Fields entrò in camera mia. Quando gli offrii da bere accettò, ed io premetti i pulsanti di programmazione sul quadro dei comandi del servizio in camera. Restammo seduti in silenzio a sorseggiare il rum. Mi augurai che non cominciasse a blaterare nel gergo degli psicologi. Ma non era il tipo che blaterava; era diretto, incisivo, lucido, secondo il suo stile.

«Sembra un sogno, eh?» chiese.

«La faccenda dell’uomo venuto dal futuro?»

«L’intero ambiente culturale. Questa atmosfera fin de siècle.»

«È stato un secolo molto lungo, Fields. Forse il mondo è felice di vederlo finire. Forse tutta questa anarchia intorno a noi è un modo di festeggiarlo, eh?»

«Potresti avere ragione,» ammise lui. «Vornan-19 è un po’ come il Fortebraccio mell’Amleto, venuto a rimettere in sesto i tempi.»

«Ne sei certo?»

«È una possibilità.»

«Fino ad ora non è stato molto utile,» dissi io. «Sembra che provochi guai dovunque vada.»

«Non intenzionalmente. Non è ancora sintonizzato su noi selvaggi, e continua a inciampare nei tabù tribali. Lasciagli un po’ di tempo, in modo che impari a conoscerci, e comincerà ad operare prodigi.»

«Perché dici così?»

Fields si tirò solennemente l’orecchio sinistro. «Ha poteri carismatici, Garfield. Il potere divino. Lo si vede dai suoi sorrisi, non ti sembra?»

«Sì. Sì. Ma cosa ti fa pensare che userà razionalmente quel carisma? Perché non divertirsi un po’, scatenare le turbe? È qui come salvatore, o soltanto come turista?»

«Questo lo scopriremo da noi, tra qualche giorno. Ti dispiace se ordino un altro rum?»

«Ordinane anche tre,» dissi io, allegramente. «Tanto, non sono io che pago il conto.»

Fields mi fissò, molto serio. Sembrava che faticasse a mettere a fuoco gli occhi chiari, come se si fosse messo un paio di lenti a contatto e ancora non sapesse come servirsene. Dopo un lungo silenzio disse: «Conosci qualcuno che sia andato a letto con Aster Mikkelsen?»

«No. Dovrei conoscerlo?»

«Domandavo così. Potrebbe essere lesbica.»

«Ne dubito,» dissi io. «Non so. È importante?»

Fields rise, controvoglia. «Ieri notte ho tentato di sedurla.»

«L’ho notato.»

«Ero molto sbronzo.»

«Ho notato anche questo.»

Fields fece: «Aster mi ha detto una cosa strana, mentre cercavo di portarmela a letto. Ha detto che non andava a letto con gli uomini. Lo ha detto in un modo secco e inflessibile, come se dovesse essere assolutamente chiaro a chiunque che non sia un idiota. Mi domandavo se c’è qualcosa che dovrei sapere di lei e che invece non so.»