«Il mio staff sorveglia in continuazione Vornan,» scattò, rivolto allo psicologo. «Gli teniamo addosso un collegamento completo, audio, video e tattile, e non credo che lui lo sappia; e le sarò grato se non glielo farà sapere. La signorina Mikkelsen non corre alcun pericolo.»
Fields fu colto alla sprovvista. Fu un colpo per tutti, ne sono sicuro.
«Vuol dire che i suoi uomini li stanno osservando… in questo momento?»
«Guardi» ribatté Kralick, evidentemente irritato. Afferrò il telefono interno e fece un numero. Immediatamente la parete a schermo s’illuminò, trasmettendo ciò che riprendevano i suoi apparecchi. Vedemmo un’immagine a colori e in tre dimensioni di Aster Mikkelsen e di Vornan-19.
Erano completamente nudi. Vornan voltava le spalle alla telecamera, Aster no. Aveva un corpo snello, agile, sottile di fianchi, ed i seni di una dodicenne.
Erano insieme sotto una doccia molecolare. Lei gli grattava la schiena.
Sembrava che si divertissero molto.
VIII
Quella sera, Kralick aveva preso accordi perché Vornan-19 partecipasse ad una festa in suo onore nella casa che Wesley Bruton, il magnate dei servizi pubblici, aveva sul fiume Hudson. La casa era stata ultimata soltanto due o tre anni prima; era opera di Albert Ngumbwe, il giovane e geniale architetto che attualmente sta progettando la capitale panafricana nella foresta di Ituri. Era così sensazionale che ne avevo sentito parlare persino io, nel mio isolamento californiano: era il prodotto più straordinario dell’architettura contemporanea, si diceva. La mia curiosità era vivissima. Passai quasi tutto il pomeriggio a leggere un libro praticamente incomprensibile di un critico d’architettura, per inserire la casa di Bruton nel suo contesto… era il mio compitino, per così dire. Gli elicotteri sarebbero partiti alle sei e trenta dall’eliporto sul tetto del nostro albergo, e avremmo viaggiato protetti dal più rigoroso servizio di sicurezza. Il problema logistico sarebbe stato serio, in quella visita, me ne rendevo conto, e avrebbero dovuto trasferirci da un posto all’altro come merce di contrabbando. Parecchie centinaia di giornalisti ed altre pesti dei mass media tentavano di seguire Vornan dappertutto, benché ci fosse l’accordo che limitava l’accesso ad un gruppo di sei giornalisti al giorno, a rotazione. Un nugolo di Apocalittici furibondi seguiva i movimenti di Vornan, gridando che non gli credevano. E adesso c’era anche la preoccupazione della massa crescente dei discepoli, una contro-orda di tranquilli e rispettabili piccoli borghesi che vedevano in lui l’apostolo della legge e dell’ordine, e che calpestavano la legge e l’ordine nel loro desiderio frenetico di adorarlo. Con tutta questa gente con cui contendere, dovevamo muoverci in fretta.
Verso le sei cominciammo a radunarci nell’appartamento principale. Quando arrivai, trovai Kolff e Helen. Kolff era bardato in grande stile, ed era uno spettacolo imponente: una tunica luccicante avvolgeva la sua mole monumentale e scintillava di tutti i colori dell’iride ed una gigantesca fusciacca blu notte richiamava l’attenzione sul ventre prominente. Si era allisciato i radi capelli bianchi sulla volta cranica. Sull’ampio petto era appuntata una fila di medaglie accademiche conferitegli da vari governi. Ne riconobbi una sola, di cui anch’io ero stato insignito, la francese Legion des Curies. Kolff ostentava una dozzina di quelle sciocche onorificenze.
Al confronto, Helen sembrava quasi sobria. Aveva un abito fluente fatto di non so che malizioso polimero, che un momento era trasparente, un altro momento opaco; vista da una data angolazione, sembrava nuda, ma lo spettacolo durava solo un istante, prima che le lunghe catene di molecole sguscianti cambiassero orientamento e la nascondessero. Era un abito ingegnoso, attraente, persino di buon gusto, a modo suo. Alla gola portava un curioso amuleto, sfacciatamente fallico, al punto da smentire se stesso e da apparire innocente. Il trucco consisteva di un rossetto verde luminescente e di aloni scuri intorno agli occhi.
Fields arrivò poco dopo, con un abito normale, e quindi sopraggiunse Heyman, con abito da sera fuori moda almeno da vent’anni. Sembravano entrambi a disagio. Poco dopo entrò Aster, vestita di un semplice abito che le arrivava alle cosce, e ornata da una fila di piccole tormaline che le cingevano la fronte. Il suo arrivo suscitò una certa tensione.
Mi voltai di scatto, con aria colpevole: quasi non riuscivo a reggere il suo sguardo. Come tutti gli altri, l’avevamo spiata; anche se non era stata un’idea mia accendere lo schermo per vederla nella doccia, l’avevo guardata come tutti gli altri, avevo accostato l’occhio al buco della serratura ed avevo sbirciato furtivamente. I suoi seni minuscoli e le natiche piatte da ragazzetto ormai non erano più un segreto, per me. Fields tornò a irrigidirsi, stringendo i pugni; Heyman arrossì e strusciò i piedi sul pavimento di spugna di vetro. Ma Helen, che non credeva a concetti come la colpa, la vergogna o il pudore, rivolse ad Aster un caloroso saluto imperturbato, e Kolff, che nella sua lunga vita ne aveva combinate di tutti i colori e non aveva spazio per un rimorso causato da un episodio non intenzionale di voyeurismo, tuonò tutto felice: «Ti è piaciuta la doccia?»
Aster rispose tranquilla: «È stato divertente.»
Non fornì particolari. Vedevo benissimo che Fields bruciava dalla smania di sapere se era stata a letto con Vornan-19. Per me, era una questione di scarso interesse; il nostro ospite aveva già dato prova di una voracità sessuale straordinaria ed indiscriminata, ma d’altra parte Aster appariva perfettamente in grado di difendere la propria castità anche contro un uomo con cui aveva fatto il bagno. Aveva l’aria gaia e rilassata, e non pareva che avesse subito una fondamentale violazione della sua personalità in quelle ultime tre ore. Quasi mi auguravo che fosse andata veramente a letto con lui; sarebbe stata un’esperienza salutare per lei, così fredda ed isolata.
Kralick arrivò pochi minuti dopo, con Vornan-19 a rimorchio. Ci portò sull’eliporto del tetto, dove ci aspettavano gli apparecchi. Erano quattro: uno per i sei membri del cartello della stampa, uno per un’infornata di funzionari della Casa Bianca, ed uno per gli agenti del servizio di sicurezza. Il nostro fu il terzo a decollare. Con un sommesso rombo di turbine si lanciò nel cielo notturno e s’involò verso Nord. Durante il volo non riuscimmo a vedere gli altri elicotteri. Vornan-19 guardava con interesse, dal finestrino, la città splendente di luci.
«Qual è la popolazione di questa città, prego?» chiese.
«Compresa l’area metropolitana circostante, circa trenta milioni di persone,» disse Heyman.
«Tutte umane?»
La domanda ci sconcertò. Dopo un momento, Fields disse: «Se vuol intendere che qualcuno di loro proviene da altri mondi, la risposta è no. Non ci sono esseri di altri mondi, sulla Terra. Non abbiamo mai scoperto esseri intelligenti nel Sistema Solare, e nessuna delle nostre sonde stellari è ancora tornata.»
«No,» disse Vornan. «Non stavo parlando degli abitanti di altri mondi. Mi riferivo ai nativi della Terra. Quanti dei vostri trenta milioni di abitanti, qui, sono umani purosangue, e quanti sono servitori?»
«Servitori? Vuol dire robot?» chiese Helen.
«Nel senso di forme di vita sintetiche, no,» disse pazientemente Vornan. «Mi riferisco a coloro che non hanno una posizione di esseri umani perché, geneticamente, non sono umani. Non avete ancora i servitori? Fatico un po’ a trovare le parole esatte per chiederlo. Non avete ancora costruito la vita partendo da esseri viventi inferiori? Non ci sono…» S’interruppe. «Non so come dirlo. Non ci sono le parole adatte.»
Ci scambiammo occhiate di turbamento. Quella era in pratica la prima conversazione che noi avevamo con Vornan-19, e già eravamo impegolati nei dilemmi della comunicazione. Ancora una volta provai quel brivido di paura, la consapevolezza di essere alla presenza di qualcosa di estraneo. Ogni atomo scettico e razionalista del mio essere mi diceva che quel Vornan non era altro che un abilissimo truffatore, eppure quando parlava in quel modo casuale di una Terra popolata da umani e da men-che-umani, i suoi tentativi brancolanti di spiegare ciò che intedeva dire erano fin troppo convincenti. Lasciò cadere l’argomento. Il volo proseguì. Sotto di noi il fiume Hudson si snodava torpido verso il mare. Dopo un poco, la zona metropolitana si diradò e cominciammo a distinguere le aree scure dei parchi pubblici, e poi scendemmo verso la pista d’atterraggio privata della tenuta di cento acri di Wesley Bruton, centoventi chilometri a Nord della città. Bruton era proprietario del più ampio tratto di terra privata non edificata a oriente del Mississippi, si diceva. Ed io ci credevo.