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La casa era radiosa. La vedemmo da una distanza di quattrocento metri, quando scendemmo dagli elicotteri; si trovava su di un’altura affacciata sul fiume, e splendeva di un chiarore verde che lanciava verso le stelle fasci di luce. Un marciapiedi mobile coperto ci portò su per la china, in mezzo ad un giardino d’inverno di ghiacci scolpiti, fantasie colorate realizzate con mano maestra. Quando fummo più vicini, potemmo distinguere la creazione di Ngumbwe: una serie di gusci concentrici traslucidi, che racchiudevano un padiglione a punta, più alto degli alberi circostanti. Otto a nove archi sovrapposti formavano il tetto, e giravano lentamente, in modo che la forma della casa cambiava continuamente. Trenta metri al di sopra dell’arco più alto era librato un grande faro di luce vivente, un immenso globo giallo che girava e fremeva e turbinava sul tenue piedistallo. Si sentiva una musica acuta e vibrante che proveniva da festoni di minuscoli altoparlanti drappeggiati lungo i rami gelati di solenni alberi monumentali. Il marciapiedi mobile ci portò verso la casa: una porta sbadigliò, come una bocca, allargandosi lateralmente per inghiottirci. Intravvidi la mia immagine rispecchiata sulla superficie vitrea dell’uscio: ero solenne, un po’ grassoccio, impacciato.

Nella casa regnava il caos. Ngumbwe, evidentemente, era in combutta con le potenze delle tenebre; non c’era un solo angolo comprensibile, non c’era una linea che ne incontrasse un’altra. Dal vestibolo in cui ci trovavamo, si scorgevano dozzine di locali che si diramavano in tutte le direzioni, ma era impossibile discernere una struttura coerente, perché anche le stanze erano in movimento, e mutavano di continuo non soltanto le forme individuali, ma anche le relazioni tra di loro. Le pareti si formavano, si dissolvevano e si reincarnavano altrove. I pavimenti si sollevavano, diventavano soffitti, mentre al di sotto nascevano nuove stanze. Avevo la sensazione che macchinali colossali sferragliassero nelle viscere della terra per realizzare quegli effetti, ma tutto si compiva con scioltezza, senza rumore. Nel vestibolo, la struttura era relativamente stabile, ma l’alcova ovale aveva pareti rosee e viscide d’un materiale simile a pelle che scendeva in un declivio brusco, e risaliva proprio appena al di là del punto in cui stavamo noi, torcendosi a mezz’aria in modo che la superficie, senza giunture, era quella di una «striscia di Moebius». Si poteva camminare su per la parete, superare il punto d’inversione, e lasciare quel locale per passare in un altro, eppure non si vedevano uscite. Dovetti mettermi a ridere Un pazzo aveva progettato quella casa, e un altro pazzo ci abitava; ma si poteva provare un certo orgoglio perverso per tutta quella ingegnosità così mal usata.

«Straordinario!» tuonò Lloyd Kolff. «Incredibile! Cosa ne pensa, eh?» chiese a Vornan.

Vornan sorrise vagamente. «Molto divertente. E la terapia è efficace?»

«La terapia?»

«Questa è una casa di cura per squilibrati? Un manicomio, è la parola giusta?»

«È la casa di uno degli uomini più ricchi del mondo,» fece stizzito Heyman, «progettata dal giovane e geniale architetto Albert Ngumbwe. Viene considerata un eccezionale monumento di valore artistico.»

«Affascinante,» disse Vornan-19, con un effetto devastante.

Il vestibolo ruotò e noi ci muovemmo lungo la superficie viscida fino a quando, all’improvviso, ci trovammo in un’altra sala. La festa era in pieno svolgimento. Almeno cento persone erano raccolte nella sala a forma di rombo, dalle dimensioni immense ed insondabili; facevano un baccano spaventoso, sebbene grazie a qualche ingegnoso gioco acustico non avessimo udito nulla fino a quando avevamo superato la zona critica della «striscia di Moebius». Adesso eravamo in mezzo ad un’orda di ospiti eleganti che chiaramente avevano festeggiato l’evento della serata molto tempo prima dell’arrivo dell’ospite d’onore. Ballavano, cantavano, bevevano, lanciavano sbuffi di fumo multicolore. I riflettori giocavano sopra di loro. Riconobbi dozzine di facce, in un solo sguardo abbagliato che lanciai nella sala: attori, finanzieri, uomini politici, playboy, spaziali. Bruton aveva gettato una rete fitta nella società catturando soltanto i personaggi illustri, straordinari, vivaci. Mi stupii di essere in grado di assegnare nomi a tante di quelle facce, e mi resi conto che era una misura del successo di Bruton, aver potuto raccogliere sotto quei tetti molteplici tanti individui che persino un eremita come me poteva riconoscere.

Un torrente di scintillante vino rosso fluiva da una apertura in alto, su di una parete, e scorreva in un fiume denso e gorgogliante, diagonalmente, attraverso il pavimento, come l’acqua in un abbeveratoio per maiali. Una ragazzina bruna, vestita esclusivamente di cerchi argentei, stava sotto la cascata e rideva mentre il getto la infradiciava. Cercai mentalmente il suo nome, ed Helen disse: «Deona Sawtelle, l’ereditiera dei computer.» Due bei giovani in smoking di tessuto a specchio la tiravano per le braccia, cercando di trascinarla via, ma lei si liberò per piroettare sotto la fontana di vino. Dopo un attimo, i due la imitarono. Lì accanto, una superba donna dalla carnagione scura e dalle narici ingemmate strillava allegramente nella stretta di una titanica figura metallica che la serrava ritmicamente al petto. Un uomo dalla testa rasata e lucida giaceva lungo disteso sul pavimento, mentre tre ragazzine poco più che decenni gli sedevano addosso a cavalcioni e, credo, cercavano di slacciargli i calzoni. Quattro gentiluomini dall’aria di studiosi e dalle barbe tinte cantavano, rauchi, in una lingua a me sconosciuta, e Lloyd Kolff andò a salutarli con grida di piacere misteriosamente espresse. Una donna dalla pelle dorata piangeva silenziosamente alla base di una mostruosa struttura rotante d’ebano, giada e bronzo. Nell’aria fumosa volteggiavano esseri meccanici dalle sferraglianti ali metalliche e dalle code di pavone, lanciando grida stridule e gettando sugli ospiti escrementi scintillanti. Un paio di grosse scimmie incantenate con cerchi di avorio si accoppiavano allegramente all’intersezione di due angoli acuti della parete. Quella era Ninive; era Babilonia. Mi sentivo abbagliato e stordito, disgustato da quegli eccessi e tuttavia deliziato, animato dall’esaltazione che si può provare di fronte ad una audacia cosmica. Quella era una tipica festa alla Wesley Bruton? Oppure era stata messa in scena per far colpo su Vornan-19? Non riuscivo a immaginare che le gente si comportasse in quel modo, in circostanze normali. Tuttavia, sembravano tutti molto naturali; sarebbe bastato aggiungere una patina di sudiciume e cambiare la scena, e quella avrebbe potuto essere una manifestazione degli Apocalittici, non un convegno dell’élite. Intravvidi Kralick… era sgomento. Stava a lato dell’entrata scomparsa, enorme e sbiancato in volto; la sua brutta faccia non era più affascinante, adesso che lo sbigottimento traspariva dai suoi lineamenti. Non aveva certo immaginato di portare Vornan in un posto del genere.

Dov’era il nostro visitatore, fra l’altro? Durante il trauma iniziale dell’ingresso in quel caos, l’avevamo perduto di vista. Vornan aveva avuto ragione: quello era un manicomio. E lui era proprio là in mezzo. Lo vidi, finalmente, accanto al fiume di vino. La ragazza dai cerchi d’argento, l’ereditiera dei computer, si sollevò sulle ginocchia, con il corpo chiazzato di cremisi, e si passò lievemente la mano sul fianco. I cerchi si aprirono al delicato comando, e caddero. Lei ne offrì uno a Vornan, che l’accettò con aria seria, e lanciò in aria gli altri. Gli uccelli meccanici li afferrarono in volo e cominciarono a divorarli. L’ereditiera dei computer, ormai completamente nuda, batté le mani, felice. Uno dei giovanotti dallo smoking a specchio estrasse dalla tasca una bombola e spruzzò i seni e l’inguine della ragazza, formando un sottile rivestimento di plastica. La ragazza lo ringraziò con una riverenza, e voltandosi di nuovo verso Vornan-19, raccolse il vino nel cavo delle mani e glielo offrì. Lui bevve. La metà sinistra della sala entrò in convulsioni, il pavimento si alzò di sei metri per rivelare un gruppo completamente nuovo di invitati che uscivano da chissà quale cantina. Kralick, Fields ed Aster sparirono alla nostra vista, insieme ad altri, nella rotazione del pavimento. Decisi di restare accanto a Vornan, visto che nessun altro membro della nostra commissione se ne assumeva la responsabilità. Kolff rideva pazzamente insieme ai suoi quattro eruditi barbuti; Helen era immobile, abbagliata, e cercava di imprimersi nella mente ogni particolare della scena; Heiman si allontanò volteggiando tra le braccia di una bruna voluttuosa con artigli artificiali fissati alle dita. Mi feci largo a spallate in mezzo alla calca. Un giovane cereo mi afferrò la mano e me la baciò. Una vecchia dama eruttò un getto di vomito a venti centimetri dalle mie scarpe, ed uno scarabeo metallico ronzante e dorato, dal diametro di trenta centimetri, emerse dal pavimento per pulire, emettendo ticchettii di soddisfazione: vidi i suoi ingranaggi muoversi sotto le ali, mentre guizzava via. Un attimo dopo fui a fianco di Vornan.