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Aveva le labbra macchiate di bevanda, ma il suo sorriso era ancora magnifico. Quando mi scorse, si liberò della Sawtelle, che cercava di trascinarlo nel rivoletto di vino, e mi disse: «È eccellente, Sir Garfield. È una splendida serata.» Aggrottò la fronte. «Sir Garfield è errato, lo ricordo. Tu sei Leo. È una splendida serata, Leo. Questa casa… è una commedia materializzata!»

Tutto intorno a noi il baccanale infuriava ancora più freneticamente. Bolle di luce vivente fluttuavano all’altezza degli occhi: vidi uno degli illustri ospiti catturarne una e mangiarla. Era scoppiato un pugilato tra due accompagnatori di una donna dalle forme troppo abbondanti che era, notai con timore e disgusto, una reginetta di bellezza della mia gioventù. Lì vicino, due ragazze si rotolavano sul pavimento lottando con veemenza, strappandosi a vicenda gli abiti. Si formò una cerchia di spettatori, che applaudivano ritmicamente via via che venivano rivelate zone di carni nude; all’improvviso le natiche rosee lampeggiarono e la rissa si trasformò in un amplesso saffico e disinibito. Vornan sembrava affascinato dalle gambe flesse della ragazza che stava sotto, dal monte di Venere della vincitrice, dai suoni umidi e risucchianti delle loro labbra congiunte. Inclinò la testa per vedere meglio. Ma nello stesso momento qualcuno si avvicinò e Vornan mi chiese: «Conosci questo uomo?» Ebbi la sconvolgente sensazione che Vornan avesse guardato contemporaneamente in due direzioni, inquadrando con ognuno degli occhi un diverso settore della sala. Era davvero così?

Il nuovo arrivato era un uomo piccolo e grasso, non più alto di Vornan-19, ma almeno due volte più largo. L’ossatura immensamente possente era il supporto di una testa massiccia, dolicocefala che, senza il sostegno di un collo, s’innalzava dalle enormi spalle. Non aveva capelli, e neppure ciglia e sopracciglia: questo lo faceva sembrare più nudo dei vari individui spogliati o semispogliati che sgavazzavano ebbri intorno a noi. Senza badare a me, l’uomo tese una zampa enorme verso Vornan-19 e disse: «Dunque è lei, l’uomo venuto dal futuro? Lieto di conoscerla. Io sono Wesley Bruton.»

«Il nostro ospite. Buonasera.» Vornan gli dedicò una variante del suo sorriso, meno abbagliante, più urbano, e quasi subito il sorriso si spense ed entrarono in gioco gli occhi: acuti, freddi, penetranti. Con un gentile cenno del capo nella mia direzione, disse: «Conosce Leo Garfield, naturalmente?»

«Soltanto di fama,» ruggì Bruton. Teneva ancora la mano protesa. Vornan non gliel’aveva stretta. L’espressione di attesa negli occhi di Bruton si trasformò poco a poco in sbalordito disappunto e in furore appena dissimulato. Rendendomi conto che dovevo fare qualcosa, afferrai io la mano, e mentre quello maciullava la mia, gridai: «È stato molto gentile ad invitarci, signor Bruton È una casa miracolosa.» E aggiunsi, in tono più basso: «Lui non capisce tutte le nostre usanze. Non credo che abbia l’abitudine di stringere la mano.»

Il magnate sembrò raddolcirsi. Mi lasciò andare e chiese: «E lei cosa ne pensa della casa, Vornan?»

«Deliziosa. Incantevole nella sua delicatezza. Ammiro il gusto del suo architetto, la sua sobrietà, il classicismo.»

Non riuscivo a capire se quello era un elogio sincero o una derisione. Bruton parve accettare il complimento alla lettera. Afferrò Vornan per un polso, con l’altra mano abbrancò me, e disse: «Vorrei mostrarvi un po’ dei meccanismi dietro le quinte, amici. Dovrebbero interessarla, professore. E so che a Vornan piaceranno. Venite!»

Temevo che Vornan si accingesse ad usare quella tecnica della scossa di cui aveva dato una dimostrazione sulla scalinata di Trinità dei Monti e mandasse Bruton a ruzzolare lontano una decina di metri, per aver avuto l’ardire di mettergli le mani addosso. Ma no, il nostro ospite lasciò fare. Bruton si fece largo a spintoni in mezzo al caos vorticoso della festa, rimorchiandoci nella sua scia. Arrivammo ad un podio al centro della sala. Un’orchestra invisibile attaccò un accordo terrificante e proruppe in una sinfonia che non avevo mai udita, facendo scaturire gorghi di suono da ogni angolo. Una ragazza vestita come una principessa egizia danzava sul podio. Bruton le posò le mani sulle cosce nude e la sollevò, spostandola, come se fosse una sedia. Salimmo sul podio accanto a lui; Bruton fece un segnale, e improvvisamente sprofondammo attraverso il pavimento.

«Siamo a sessanta metri di profondità,» annunciò Bruton. «Questa è la sala comandi centrale. Guardate!»

Agitò grandiosamente le braccia. Tutto intorno a noi c’erano schermi che riproducevano immagini della festa. L’azione si svolgeva, caleidoscopicamente, in una dozzina di sale nel contempo. Vidi il povero Kralick che barcollava, mentre una specie di femme fatale gli montava sulle spalle. Morton Fields s’era avvinghiato in una posizione compromettente intorno ad una donna corpulenta dal grosso naso camuso; Helen McIlwain dettava appunti nell’amuleto che portava alla gola, un compito che le imponeva una buona imitazione di un atto di fellatio: e Lloyd Kolff si godeva l’atto, dal vero, non molto lontano, e rideva cavernosamente mentre una ragazza dagli occhi sbarrati stava accoccolata davanti a lui. Aster Mikkelsen era al centro di una sala dalle pareti umide e palpitanti, e appariva imperturbabile mentre la frenesia infuriava intorno a lei. Tavole cariche di vivande si muovevano da sole nelle varie sale; vidi gli ospiti afferrare i manicaretti, rimpinzarsi, e lanciarsi l’un l’altro bocconcini prelibati. C’era una sala dal cui soffitto pendevano rubinetti di vini e liquori, a quanto presumo, in modo che chiunque poteva afferrarli e premerli e servirsi; c’era una stanza immersa nell’oscurità più totale, ma non deserta; c’era un’altra sala in cui gli ospiti facevano a turno nel mettersi in testa la cuffia di non so che congegno d’alterazione sensoriale.