«State a vedere!» esclamò Bruton.
Vornan ed io osservammo, lui con blando interesse, io angosciato, mentre Bruton girava interruttori, chiudeva contatti, batteva ordini al computer con allegria demenziale. Le luci si accesero e si spensero nelle sale superiori; pavimenti e soffitti cambiarono posto; piccole creature artificiali volarono pazzamente in mezzo agli ospiti che urlavano e ridevano. Suoni scroscianti, troppo tremendi per poterli chiamare musica, si avventavano attraverso l’edificio. Pensai che la Terra stessa avrebbe incominciato ad eruttare per protesta, e che la lava fusa ci avrebbe inghiottiti tutti quanti.
«Cinquemila chilowatt all’ora,» proclamò Bruton.
Appoggiò le mani contro un globo argenteo d’una trentina di centimetri di diametro e lo spinse lungo un binario ingemmato. Immediatamente una parete della sala comandi si ripiegò e sparì, rivelando l’albero gigantesco di un generatore magnetoidrodinamico che scendeva in un altro sotterraneo ancora più basso. Gli aghi dei monitor danzavano come pazzi; i quadranti lampeggiavano verdi, rossi e violacei. Il sudore colava sul volto di Wesley Bruton mentre elencava, quasi istericamente, le caratteristiche tecnologiche della centrale elettrica su cui era piazzato il suo palazzo. Ci cantò un inno frenetico di chilowatt. Afferrò alcuni grossi cavi e li massaggiò, con aperta oscenità. Ci fece cenno di scendere per vedere il cuore del suo generatore, e lo seguimmo, guidati nel profondo dell’abisso da quello gnomo magnate. Wesley Bruton, ricordavo vagamente, aveva messo insieme la grande società che distribuiva l’energia elettrica su metà continente, e sembrava che tutta la potenza generatrice di quel monopolio tentacolare fosse concentrata lì, sotto i nostri piedi, imbrigliata al solo scopo di far funzionare il capolavoro architettonico di Albert Ngumbwe. A quel livello, l’aria era rovente. Il sudore mi colava a rivoli sulle guance. Bruton si aprì la giacca, mettendo a nudo il torace glabro segnato da grossi fasci di muscoli. Soltanto Vornan-19 rimaneva imperturbato in quel calore; avanzava a passo di danza a fianco di Bruton, parlando poco, osservando molto, per nulla contagiato dall’umore febbrile dell’ospite.
Arrivammo in fondo. Bruton accarezzò la parete curvilinea del suo generatore come se fosse il fianco di una donna. All’improvviso, dovette balenargli nella mente che Vornan-19 non era andato in estasi davanti a quella parata di meraviglie. Si girò di scatto e domandò: «C’è qualcosa di simile, nel posto da dove viene? C’è una casa che si possa paragonare alla mia?»
«Ne dubito,» disse gentilmente Vornan.
«Come vive la gente, là? In case grandi? o piccole?»
«Tendiamo alla semplicità.»
«Quindi non ha mai visto una casa come la mia! Niente che possa eguagliarla, nei prossimi mille anni!» Bruton s’interruppe. «Ma… la mia casa non esiste ancora, nel suo tempo?»
«Non mi risulta.»
«Ngumbwe mi aveva promesso che sarebbe durata mille anni! Cinquemila! Nessuno abbatterebbe mai una casa come questa! Senta, Vornan, provi un po’ a pensarci bene. Deve essere da qualche parte. Un monumento del passato… un momento della storia antica…»
«Forse c’è ancora,» disse Vornan, con fare indifferente. «Vede, questa zona si trova fuori dalla Centralità. Non ho informazioni precise su ciò che vi si può trovare. Tuttavia, credo che la barbarie primitiva di questo edificio potrebbe essere apparsa offensiva a coloro che vissero nel Tempo della Pulizia, quando cambiarono parecchie cose. Allora molto andò distrutto a causa dell’intolleranza.»
«Barbarie… primitiva…» borbottò Bruton. Sembrava sull’orlo di un colpo apoplettico. Avrei voluto avere Kralick a portata di mano per tirarmi fuori da quel pasticcio.
Vornan continuò a piantare spilli nella pelle inaspettatamente delicata del miliardario. «Sarebbe stato affascinante, conservare un posto simile,» disse. «Per organizzarvi festival, cerimonie curiose in onore del ritorno della primavera.» Vornan sorrise. «Potremmo addirittura avere di nuovo gli inverni, se non altro per poter vivere il ritorno della primavera, appunto. E allora danzeremmo e faremmo baldoria in casa sua, Sir Bruton. Ma penso che sia andata perduta. Credo che sia scomparsa, centinaia di anni or sono. Non ne sono sicuro. Non ne sono sicuro.»
«Vuol prendermi in giro?» urlò Bruton. «Ride della mia casa? Per lei sono soltanto un selvaggio? Le…»
Mi affrettai ad intromettermi. «Come esperto di elettricità, signor Bruton, forse le interesserà sapere qualcosa delle fonti di energia nell’era di Vornan-19. Nel corso di una delle sue interviste, un paio di settimane fa, ha detto qualcosa a proposito delle fonti autonome a conversione totale d’energia, e forse adesso potrebbe spiegarsi meglio, se lei glielo chiedesse.»
Bruton dimenticò immediatamente la sua indignazione. Con un braccio si asciugò il sudore che gli colava negli occhi privi di ciglia e grugnì: «Cos’è questa storia? Me ne parli!»
Vornan accostò le mani, dorso contro dorso, in un gesto comunicativo quanto alieno. «Purtroppo me ne intendo pochissimo di questioni tecniche.»
«Mi dica qualcosa, comunque!»
«Sì,» dissi io, pensando ai tormenti di Jack Bryant e chiedendomi se era venuto il momento di scoprire ciò che dovevo. «Questo sistema d’energia autosufficiente, Vornan. Quando è entrato in funzione?»
«Oh… molto tempo fa. Rispetto ai miei tempi, voglio dire.»
«Quanto tempo fa?»
«Trecento anni?» si chiese Vornan. «Cinquecento? Ottocento? È così difficile calcolare queste cose. È stato molto tempo fa… molto tempo.»
«E com’era?» domandò Bruton. «Quand’era grande ogni unità generatrice?»
«Molto piccola,» rispose evasivamente Vornan. Posò leggermente la mano sul braccio nudo di Bruton. «Vogliamo risalire? Perderò la sua festa così interessante.»
«Vuol dire che questo sistema elimina completamente la necessità di trasmettere l’energia?» Bruton non intendeva lasciar perdere. «Ognuno produce l’energia che gli serve? Proprio come faccio io qui?»
Salimmo per una passerella intricata, sottile come una ragnatela, che ci trasportò al piano superiore. Bruton continuò a tempestare Vornan di domande, mentre ritornavamo alla sala comandi principale. Io cercavo d’intromettermi con qualche domanda che servisse a chiarire in quale epoca si era compiuto il rivoluzionario cambiamento, sperando di poter mettere l’animo in pace a Jack, dicendogli che era accaduto in un remoto futuro. Vornan eludeva allegramente le nostre domande, senza dire nulla di concreto. Il suo spensierato rifiuto di soddisfare ogni richiesta d’informazioni ridiede vita e vigore ai miei sospetti. Come potevo fare a meno di oscillare come un pendolo, ora torchiando appassionatamente Vornan sugli eventi della storia futura, ora imprecando contro la mia ingenuità quando mi rendevo conto che era un impostore? Nella sala comandi, Vornan scelse un metodo molto semplice per liberarsi del peso ossessivo della nostra curiosità. Si avvicinò ad uno dei complessi quadri, rivolse a Bruton un sorriso ad altissimo voltaggio e disse: «È deliziosamente divertente, questa sua sala. La ammiro moltissimo.» Fece scattare tre interruttori e premette quattro pulsanti; poi girò un volano per novanta gradi e abbassò una lunga leva.
Bruton ululò. La sala diventò buia. Le scintille volarono come indemoniate. Dall’alto giunse il gemito cacofonico degli strumenti musicali disincarnati e poi suoni di scrosci e di tonfi. Sotto di noi, due passerelle mobili sbatterono una contro l’altra, con un forte clangore; uno stridio stregato uscì dal generatore. Uno schermo si riaccese, mostrandoci nel suo pallido chiarore la sala da ballo principale, con gli ospiti ammassati in un mucchio disordinato. Cominciarono a lampeggiare le luci rosse dell’allarme. L’intera casa era sghemba, le sale orbitavano intorno ad altre sale. Bruton artigliava pazzamente i comandi, premendone uno, girandone un altro, ma ogni correzione da lui compiuta pareva soltanto accrescere la disgregazione. Il generatore sarebbe scoppiato? Mi chiesi. Ci sarebbe crollato tutto addosso? Ascoltai un torrente di imprecazioni che avrebbero mandato in estasi Kolff. I macchinari cigolavano e stridevano ancora, sopra e sotto di noi. Lo schermo mi presentò una immagine sfocata di Helen McIlwain nuda che cavalcava sulle spalle di un angosciato Sandy Kralick. C’erano frastuoni di allarme e di agitazione. Dovetti muovermi. Dov’era Vornan-19? Nel buio, lo avevo perduto di vista. Trasalendo, avanzai a tentoni, cercando la uscita della sala comandi. Intrawidi una porta: era in preda ad un parossismo di convulsioni, e si muoveva sui cardini in aritmici sussulti tremanti. Mi chinai, contai cinque cicli completi e poi, augurandomi di aver calcolato esattamente il tempo, spiccai un balzo e passai appena in tempo per non venire stritolato.