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«Vornan!» urlai.

Una nebbia verdognola aleggiava nell’atmosfera della sala in cui ero entrato. Il soffitto s’inclinava ad angoli inverosimili. Gli ospiti di Bruton giacevano afflosciati sul pavimento, alcuni privi di sensi, alcuni feriti; almeno una coppia era avvinta in un amplesso appassionato. Mi parve d’intravvedere Vornan in una sala vagamente visibile alla mia sinistra, ma commisi l’errore di appoggiarmi ad una parete: un pannello reagì alla mia pressione e ruotò su se stesso spingendomi in un altro locale. Fui costretto a rannicchiarmi: il soffitto era alto forse un metro e mezzo. L’attraversai correndo, spalancai uno schermo pieghevole e mi trovai nella sala da ballo. La cascata di vino era diventata una fontana, e spruzzava il liquido gorgogliante verso il soffitto luminoso. Gli ospiti mulinavano con espressioni vacue, afferrandosi l’un l’altro per cercare conforto e stabilità. Intorno ai miei piedi ronzavano gli insetti metallici che portavano via i rottami; cinque o sei avevano catturato uno degli uccelli metallici di Bruton e lo stavano facendo a pezzi con i minuscoli becchi. Non riuscivo a scorgere nessuno del nostro gruppo. Dalla struttura dell’edificio, adesso, proveniva un acuto suono sibilante.

Mi preparai a morire, pensando che era giustamente assurdo perire nella casa di un pazzo per il capriccio di un altro pazzo, mentre ero impegnato in quella missione folle. Tuttavia, continuai a lottare, avanzando tra il fumo ed il frastuono, tra le figure aggrovigliate ed urlanti degli ospiti, tra pareti che slittavano e pavimenti che crollavano. Mi sembrò, ancora una volta, di vedere Vornan muoversi più avanti. Con insistenza demenziale lo seguii, convinto che fosse mio dovere trovarlo e trascinarlo fuori dall’edificio prima che questo si demolisse in un’espressione finale di petulanza. Ma arrivai ad una barriera che non potevo superare. Invisibile, eppure impenetrabile, mi teneva bloccato. «Vornan!» urlai, perché adesso lo vedevo chiaramente. Chiacchierava con una donna alta e bella di mezza età, che sembrava del tutto imperturbata da quanto stava accadendo. «Vornan! Sono io, Leo Garfield!» Ma lui non poteva udirmi. Porse il braccio alla donna, e insieme si allontanarono, in una corsetta irregolare, in mezzo al caos. Battei rabbiosamente i pugni contro la parete invisibile.

«Non c’è possibilità di uscire di lì,» disse una voce femminile, gutturale. «Non riusciresti a spezzarlo neanche in un milione di anni.»

Mi voltai. Una visione argentea era apparsa dietro di me: una ragazza snella, che non aveva più di diciannove anni, interamente scintillante di biancore. I capelli avevano una lucentezza serica; gli occhi erano specchi d’argento; le labbra erano inargentate; il corpo era racchiuso in un abito argenteo. Guardai meglio e mi accorsi che non era un abito, era soltanto uno strato di vernice: scorsi i capezzoli, l’ombelico, i muscoli del ventre piatto, la peluria sul sesso. Dalla gola alla punta delle dita dei piedi era vestita di spray argenteo, e nella luce spettrale sembrava radiosa, irreale, irraggiungibile. Non l’avevo vista, prima alla festa.

«Cos’è successo?» domandò.

«Bruton ci ha portati a visitare la sala comandi. Vornan ha schiacciato alcuni pulsanti, mentre non lo stavamo guardando. Credo che la casa stia per esplodere.»

Lei si accostò la mano argentea alle argentee labbra. «No, non esploderà. Ma faremo bene egualmente ad andarcene. Se continua con questi cambiamenti a casaccio, potrebbe schiacciare tutti quanti, prima che torni la normalità. Vieni con me.»

«Sai come uscire?»

«Naturalmente,» disse lei. «Basta che mi segui! C’è una uscita tre sale più in là… a meno che non si sia spostata.»

Non stetti a riflettere. La ragazza sfrecciò attraverso una botola che si aprì improvvisamente, e ipnotizzato dalla vista del suo grazioso posteriore inargentato, la seguii. Mi guidò per un lungo tratto, finché cominciai ad ansimare per la stanchezza. Scavalcammo a balzi soglie che ondulavano come serpenti; passammo in mezzo a mucchi di ubriachi storditi; veleggiammo al di sopra di ostacoli che andavano e venivano in palpiti dementi. Non avevo mai visto niente di bello quanto quella statua brunita e animata, quella ragazza d’argento, nuda e snella e svelta, che si muoveva decisa in mezzo agli spostamenti della casa. Si fermò accanto ad un tratto fremente di parete e disse: «Qui dentro.»

«Dove?»

«Lì.» La parete si spalancò, come in uno sbadiglio. La ragazza mi spinse dentro ed entrò dopo di me, poi, con una rapida piroetta, mi girò attorno, premette qualcosa, e ci trovammo all’esterno della casa.

Il soffio del vento di gennaio ci traffisse come una spada turbinante.

Avevo dimenticato la stagione; eravamo sempre stati completamente protetti per l’intera serata. All’improvviso eravamo esposti al maltempo, io nel mio leggero abito da sera, la ragazza nella sua nudità coperta soltanto da uno strato monomolecolare di vernice argentea. Barcollò e cadde in un mucchio di neve e vi rotolò sopra, come se fosse avvolta dalle fiamme e cercasse di spegnerle; la rimisi in piedi di peso. Dove potevamo andare? Dietro di noi la casa si rigirava e pulsava come un cefalopodo impazzito. Fino a quel momento la ragazza aveva avuto l’aria di sapere cosa doveva fare, ma l’aria gelida l’aveva intirizzita e stordita, e adesso tremava paralizzata, spaventata e patetica.

«Il parcheggio,» dissi io.

Corremmo da quella parte. Era lontano quasi mezzo chilometro, e noi non stavamo viaggiando su un marciapiedi mobile coperto, questa volta; correvamo sul terreno gelato, reso pericoloso da mucchi di neve e fiumi di ghiaccio. Ero tanto agitato che sentivo appena il freddo, ma per la ragazza era un’esperienza brutale. Cadde parecchie volte, prima che raggiungessimo il parcheggio. Finalmente vi arrivammo. I veicoli dei ricchi e dei potenti erano schierati in bell’ordine sotto uno schermo protettivo. Non so come, passammo; i servoparcheggiatori di Bruton erano impazziti nello sfacelo generale dell’impianto elettrico e non cercarono di fermarci. Si aggiravano in cerchio, in preda ad uno sbigottimento ronzante, accendendo e spegnendo le loro luci. Trascinai la ragazza verso la berlina più vicina, spalancai la portiera, la spinsi a bordo e mi lasciai cadere seduto accanto a lei.

Là dentro era caldo, come un grembo materno. La ragazza ansimava, tremante e congelata. «Tienimi stretta,» gridò. «Sto gelando! Per amor di Dio, tienimi stretta!»

La cinsi con le braccia. La sua figura snella si annidò contro di me. In un attimo, il suo panico svanì; ridivenne calda, padrona di sé come lo era stata quando mi aveva guidato fuori dalla casa. Sentivo le sue mani contro di me. Mi arresi volentieri al suo fascino argenteo. Le mie labbra trovarono le sue e si staccarono, cariche d’un sapore metallico; le sue cosce fresche mi cinsero; ed ebbi la sensazione di fare l’amore con una macchina ingegnosissima, ma la vernice argentea era sottile, e la sensazione svanì quando raggiunsi la carne calda che stava sotto quello strato. Nel nostro agitarsi appassionato, la sua chioma argentea si rivelò una parrucca: scivolò via, scoprendo una testa non inargentata, calva come porcellana. La riconobbi: doveva essere la figlia di Bruton, che aveva ereditato da lui l’assenza dei capelli. Sospirò e mi trascinò nell’oblio.