IX
Kralick disse: «Gli eventi ci sono sfuggiti di mano. La prossima volta, dovremo tenere più saldamente in pugno la situazione. Chi di voi era con Vornan quando ha manomesso i comandi?»
«Io,» dissi. «Non c’era assolutamente modo di impedire quello che è successo. Si è mosso molto in fretta. Né Bruton né io sospettavamo che potesse fare una cosa del genere.»
«Non bisogna mai lasciarsi cogliere alla sprovvista, con lui,» disse angosciato Kralick. «Bisogna presumere, in ogni momento, che quello sia capace di compiere la cosa più oltraggiosa che si possa immaginare. Non avevo già cercato altre volte di farvelo capire?»
«Noi siamo essenzialmente persone razionali,» disse Heyman. «Non ci è facile adattarci alla presenza di un individuo irrazionale.»
Era passato un giorno, dallo sfacelo della villa prodigiosa di Wesley Bruton. Miracolosamente, non c’erano stati morti. Kralick aveva chiesto l’invio di truppe governative, che avevano tirato fuori in tempo tutti gli ospiti dalla casa pulsante e barcollante. Vornan-19 l’avevano trovato fuori dall’edificio, intento ad osservarne con calma le convulsioni. I danni alla casa, avevo sentito borbottare Kralick, ammontavano a parecchie centinaia di migliaia di dollari. Avrebbe pagato il governo. Non invidiavo a Kralick il compito di dover placare Wesley Bruton. Ma almeno, il magnate dei pubblici servizi non poteva affermare di aver sofferto ingiustamente. Era stata la sua ansia di accaparrarsi l’uomo venuto dal futuro a tirargli addosso quel guaio. Bruton aveva visto sicuramente le registrazioni della visita di Vornan alle varie capitali europee, e sapeva che intorno a lui succedevano sempre cose imprevedibili. Tuttavia, aveva insistito a voler dare la festa, ed aveva trascinato Vornan nella sala comando di casa sua. Non mi faceva molta pena. In quanto agli ospiti, interrotti nella baldoria dal cataclisma, non meritavano a loro volta commiserazione. Erano venuti a vedere il viaggiatore nel tempo ed a fare la figura degli stupidi. Avevano fatto l’una cosa e l’altra, e che male c’era se Vornan, in cambio, aveva deciso di prenderli bellamente in giro?
Però Kralick aveva tutte le ragioni di essere scontento di noi. Toccava a noi impedire che accadessero episodi del genere. Alla nostra prima uscita con l’uomo del futuro non avevamo assolto le nostre responsabilità.
Un po’ depressi, ci preparammo a proseguire il giro.
Quel giorno dovevamo andare a visitare la Borsa di New York. Non so bene come mai fosse stata inclusa nell’itinerario di Vornan. Sicuramente, non era stato lui a richiedere quella tappa; immagino che qualche burocrate della capitale avesse arbitrariamente deciso che sarebbe stata buona propaganda portare l’uomo del futuro a dare un’occhiata alla roccaforte del sistema capitalista. Da parte mia, mi sentivo anch’io un po’ come un visitatore arrivato da un ambiente alieno, poiché non mi ero mai avvicinato alla Borsa, e non avevo mai avuto niente a che fare con quella veneranda istituzione. Vi prego di credere che il mio non è lo snobismo dell’accademico. Se avessi avuto il tempo e l’inclinazione, sarei stato felice di speculare anch’io sulle Consolidated System Mining o sulle United Ultronics e sulle altre azioni più richieste. Ma il mio stipendio è buono, e per giunta ho una piccola rendita personale, più che sufficiente per le mie esigenze; poiché la vita è troppo breve per consentirci di assaporare ogni esperienza, ho vissuto entro i limiti dei miei redditi e ho sempre dedicato ogni energia al mio lavoro, anziché al mercato azionario. Con la curiosità dell’ignorante, quindi, mi preparai alla visita. Mi sentivo come uno scolaretto in attesa di partecipare ad una gita della classe.
Kralick era stato richiamato a Washington per riferire. Il nostro pastore governativo, per quel giorno, era un giovanotto taciturno, un certo Holliday, che pareva tutt’altro che soddisfatto dell’incarico. Quella mattina alle undici ci avviammo verso il centro, viaggiando in massa: Vornan, noi sette, un codazzo di accompagnatori ufficiali, i sei membri della stampa di turno, e le nostre guardie. In base agli accordi, la galleria della Borsa sarebbe stata chiusa agli altri visitatori, durante la nostra visita. Viaggiare insieme a Vornan era già abbastanza complicato senza bisogno di dover dividere con altri la balconata del pubblico.
Il corteo di lucide berline si arrestò grandiosamente davanti all’immenso palazzo. Vornan aveva l’aria educatamente annoiata, quando i funzionari della Borsa ci fecero entrare. Per tutto il giorno, quasi non aveva parlato; anzi, non aveva quasi aperto bocca dopo il cupo viaggio di ritorno dal fiasco a casa Bruton. Il suo silenzio mi faceva paura. Che altro guaio stava tenendo in serbo, adesso? Per il momento sembrava completamente sconnesso: non aveva messo in funzione né gli acuti occhi calcolatori né il sorriso affascinante. Impassibile, riservato, sembrava un individuo come tutti gli altri mentre ci dirigevamo verso la galleria.
La scena era sbalorditiva. Senza dubbio, quella era la patria del cambiavalute.
Eravamo affacciati su di un salone di almeno trecento metri di lato, e alto una cinquantina di metri dal pavimento al soffitto. In mezzo, c’èra il grande pilastro fallico del computer finanziario centrale: una lucida colonna del diametro di venti metri, che saliva dal pavimento e scompariva oltre il soffitto. Tutte le agenzie di cambio del mondo avevano accesso diretto a quella macchina. Nelle sue profondità levigate esistevano chissà quanti relais ticchettanti e ronzanti, chissà quanti nuclei-memoria fantasticamente piccoli, quanti collegamenti telefonici, quanti banchi di dati. Con un’unica scarica di un cannone laser, sarebbe stato possibile recidere la rete di comunicazioni che teneva unita la struttura finanziaria della civiltà. Fissai guardingo Vornan-19, chiedendomi quale diavoleria avesse in mente. Mi sembrava invece calmo, distaccato, solo vagamente interessato al pianterreno della Borsa.
Intorno all’asta centrale della colonna del computer erano situate strutture più piccole, a forma di gabbia: erano trenta o quaranta, e ciascuna aveva la sua folla di agenti di cambio agitati e gesticolanti. Il pavimento, tra quelle cabine, era letteralmente coperto di fogli di carta. I fattorini si aggiravano frenetici, sollevando a calci nubi di carte abbandonate. In alto, tra un muro e l’altro, si stendeva il gigantesco nastro giallo del cartellone, che faceva scorrere, ingrandite, le informazioni trasmesse ovunque dal calcolatore principale. Mi sembrava strano che una Borsa computerizzata dovesse avere tutta quella folla esagitata, e che ci fosse in giro tanta cartaccia, come se fosse il 1949 anziché il 1999. Ma non avevo tenuto conto della forza della tradizione. Gli agenti di cambio sono conservatori, non necessariamente in fatto di ideologia, ma senza dubbio per quanto riguarda le abitudini. Vogliono che tutto resti come è sempre stato.
Cinque o sei alti funzionari della Borsa vennero a salutarci… uomini efficienti, dai capelli grigi, immacolati negli abiti all’antica. Erano immensamente ricchi, suppongo; e data la loro ricchezza, non riuscivo a capire, e non capisco ancora oggi, perché avessero deciso di trascorrere i giorni della loro vita in quel palazzo. Ma erano gentili. Immagino fossero disposti a mostrare lo stesso calore amichevole nei confronti di una delegazione dei paesi socialisti che non hanno ancora adottato il capitalismo modificato… diciamo un branco di zelanti funzionari mongoli. Ci piombarono addosso; e sembravano egualmente felici di avere lì in quella galleria una piccola banda di professori ed un uomo che affermava di venire dal lontano futuro.
Il presidente della Borsa, Samuel Norton, tenne un discorsetto cerimonioso. Era un uomo alto e ben curato di mezza età, disinvolto, evidentemente soddisfatto del suo posto nell’universo. Ci raccontò la storia dell’organizzazione, ci fornì alcune rilevanti statistiche, si vantò un pochino dell’attuale sede della borsa, che era stata costruita intorno al 1980, e concluse dicendo: «La vostra guida vi mostrerà ora dettagliatamente lo svolgimento della nostra attività. Quando avrà terminato, sarò felice di rispondere a tutte le domande di carattere generale che vorrete rivolgermi… in particolare quelle relative alla filosofia fondamentale del nostro sistema, che a quanto ne so deve interessarvi molto.»