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Comunque, me ne stetti ben zitto. Se Jack avesse voluto, in qualunque momento, riprendere il suo lavoro, non avrei cercato di impedirglielo. Non gli avrei neppure chiesto di prendere in considerazione le possibilità a lunga scadenza. Lui non si era reso conto dell’esistenza di un dilemma morale, e non sarei stato certamente io a metterlo sull’avviso.

Ma con il mio silenzio, sicuramente, mi stavo rendendo complice della distruzione dell’economia umana. Avrei potuto fare osservare a Jack che il suo lavoro, spinto fino alle estreme conseguenze, avrebbe finito per dare ad ogni essere umano un accesso illimitato ad una fonte d’energia infinita, demolendo le fondamenta di ogni società umana e creando una decentralizzazione immediata dell’umanità. Se mi fossi intromesso, forse avrei indotto Jack ad esitare. Ma non dissi niente. Comunque, non attribuitemi medaglie al merito; la mia angoscia rimaneva in stato di sospensione, finché Jack rimaneva in ozio. Lui non faceva altri progressi nella sua ricerca, e perciò era inutile che io mi tormentassi per le possibilità cui poteva condurre il risultato positivo. Quando avesse ripreso il suo lavoro, allora mi sarei trovato di nuovo di fronte al problema morale: sostenere il libero gioco dell’indagine scientifica, oppure intervenire per conservare lo status quo dell’economia.

Era una scelta tremenda. Mi venne però risparmiato l’assillo di dover decidere.

Durante il terzo anno che passò con me, Jack pasticciò un po’ all’università, facendo cose banali. Trascorreva gran parte del suo tempo intorno all’acceleratore, come se avesse appena scoperto l’aspetto sperimentale della fisica e non si stancasse di baloccarsi con esso. Il nostro acceleratore era nuovo e sensazionale: un modello anulare a protoni con un iniettore di neutroni. Allora funzionava nell’ordine di un trilione di elettronvolt; naturalmente, le attuali macchine a spirale alpha sono ben superiori, ma ai suoi tempi era un colosso. I tralicci della linea ad alta tensione che portavano la corrente dalla centrale a fusione in riva al Pacifico sembravano titanici messaggeri di potenza, e la grande cupola dell’edificio in cui era installato l’acceleratore brillava come se irraggiasse soddisfazione. Jack era sempre lì. Stava seduto davanti agli schermi mentre gli studenti eseguivano esperimenti elementari sul rilevamento dei neutrini e l’annientamento delle antiparticelle. Qualche volta pasticciava un po’ con i quadri dei comandi, per vedere come funzionavano, e per scoprire che cosa si provava nel dominare quelle forze immani. Ma ciò che faceva non aveva significato. Lo faceva tanto per fare. Cercava, volutamente, di prendere tempo.

Era così proprio perché aveva veramente bisogno di riposo?

Oppure, finalmente, si era reso conto delle implicazioni del suo lavoro… e si era spaventato?

Non glielo chiesi mai. In casi del genere, per abitudine, aspetto che il giovanotto turbato venga da me e mi confidi i suoi guai. E non potevo correre il rischio di contagiare la mente di Jack con i miei dubbi, se quegli stessi dubbi non gli si erano già presentati da soli.

Alla fine del suo secondo semestre d’ozio relativo, Jack chiese ufficialmente un appuntamento con me per chiedermi consiglio. Ci siamo, pensai. Sta per dirmi dove porta il suo lavoro, e mi chiederà se ritengo moralmente giusto che lo continui, ed allora mi troverò in difficoltà. Mi presentai all’appuntamento imbottito di tranquillanti.

Jack disse: «Leo, vorrei lasciare l’Università.»

Rimasi molto scosso. «Hai ricevuto un’offerta migliore?»

«Non dica assurdità. Abbandono la fisica.»

«Abbandoni… la fisica…?»

«E mi sposo. Conosce Shirley Frisch? L’avrà vista con me. Ci sposeremo domenica a otto. Sarà un matrimonio con pochi invitati, ma ci terrei che lei venisse, Leo.»

«E poi?»

«Ho comprato una casa in Arizona. Nel deserto, non lontano da Tucson. Andremo a star là.»

«E cosa farai, Jack?»

«Mediterò. E scriverò un poco. Vi sono alcune questioni filosofiche che vorrei considerare.»

«E il danaro?» chiesi. «Il tuo stipendio…»

«Ho avuto una piccola eredità, che qualcuno ha investito saggiamente molto tempo fa. Anche Shirley ha una rendita personale. Non è gran cosa, ma ci basterà per tirare avanti. Abbandoniamo la società. Ho pensato che non sarebbe stato giusto tenerglielo ancora nascosto.»

Appoggiai le mani sulla scrivania e, per un lungo attimo, ne contemplai le nocche. Avevo l’impressione che le mie mani cominciassero a diventare palmate. Dopo un po’ domandai: «E allora la tua tesi, Jack?»

«L’abbandono.»

«Eri ormai così vicino a terminarla…»

«Sono arrivato ad un vicolo cieco. Non posso andare oltre.» I suoi occhi incontrarono i miei e sostennero il mio sguardo. Cercava di dirmi che non osava andare avanti? Si ritirava a quel punto a causa di una sconfitta scientifica o di un dubbio morale? Avrei desiderato domandarglielo. Attesi che me lo dicesse lui. Non disse niente. Il suo sorriso era rigido e ben poco convincente. Alla fine fece: «Leo, non credo che sarei mai riuscito a combinare qualcosa di buono, in fisica.»

«Non è vero. Tu…»

«Non credo di voler combinare qualcosa di buono, in fisica.»

«Oh.»

«Mi perdona? Continuerà ad essere mio amico? Nostro amico?»

Andai al matrimonio. Ero uno dei quattro invitati. La sposa era una ragazza che conoscevo soltanto vagamente. Aveva ventidue anni, più o meno, era bionda e carina; era una studentessa laureata di sociologia. Dio solo sa dove Jack l’avesse conosciuta, dato che teneva sempre il naso sui suoi quaderni di appunti; ma sembravano molto innamorati. Lei era alta, arrivava quasi alla spalla di Jack, con una gran cascata di capelli che sembravano finissimi fili d’oro, la carnagione color miele, grandi occhi scuri ed un corpo agile e atletico. Era senza dubbio bellissima, e nell’abito corto era la sposa più raggiante che avessi mai vista. La cerimonia fu breve. Poi andammo tutti a pranzo, e verso il tramonto gli sposini se la filarono con discrezione. Quella notte, mentre tornavo a casa, provai uno strano senso di vuoto. Frugai tra le vecchie carte, perché non avevo niente di meglio da fare, e pescai diverse delle prime stesure della tesi di Jack. Restai a guardare a lungo quelle annotazioni scarabocchiate, senza capirci niente.

Un mese dopo mi invitarono a trascorrere una settimana in casa loro, in Arizona.

Pensai che fosse un invito pro forma e rifiutai educatamente immaginando che loro si aspettassero appunto quello. Ma Jack telefonò e insistette perché andassi a trovarli. Aveva la sua solita espressione seria, ma il piccolo schermo verdognolo mostrava chiaramente che la tensione era completamente sparita. Accettai. La casa, scoprii, era assolutamente isolata, con chilometri e chilometri di deserto rossiccio da ogni parte. Era una fortezza dotata di ogni comodità in quello squallore. Jack e Shirley erano abbronzatissimi, magnificamente felici, e meravigliosamente intonati l’uno all’altra. Mi portarono a fare una lunga passeggiata nel deserto, il primo giorno, ridendo quando i conigli selvatici o i ratti del deserto o le grosse lucertole verdi ci passavano davanti sfrecciando. Si chinavano per mostrarmi piccole piante nodose che crescevano rasente al suolo arido, e mi portarono ad un gigantesco cactus, un saguaro, le cui massicce braccia verdi e rugose gettavano l’unica ombra in quella grande distesa.