Ma non si arrese. L’apparecchio di rianimazione aveva una dotazione completa di strumenti d’emergenza, e lei li usò tutti. Un compressore toracico eseguì la respirazione artificiale; Aster iniettò sostanze refrigeranti nel sangue per impedire la decomposizione del cervello; gli elettrodi assalivano ritmicamente le valvole del cuore. Kolff era quasi nascosto dall’assortimento degli strumenti che lo coprivano.
Vornan s’inginocchiò e fissò attento gli occhi sbarrati di Kolff. Osservò i lineamenti allentati. Protese incerto la mano per toccare la guancia chiazzata del filologo. Notò i meccanismi che pompavano e premevano e pulsavano addosso al corpo disteso. Poi si alzò e mi chiese, sottovoce: «Cosa stanno cercando di fargli, prego?»
«Riportarlo in vita.»
«Allora questa è la morte?»
«La morte, sì»
«Che cosa gli è accaduto?»
«Il cuore ha smesso di funzionare, Vornan. Sai che cos’è il cuore?»
«Sì, sì.»
«Il cuore di Kolff era stanco. Si è fermato. Aster sta cercando di rimetterlo in moto. Non ci riuscirà.»
«Accade spesso, questa cosa di morte?»
«Almeno una volta, nella vita di ciascuno,» dissi io, amaramente. Era stato chiamato un medico. Estrasse altri strumenti dall’apparecchio di rianimazione e cominciò a praticare un’incisione sul petto di Kolff. Io dissi a Vornan: «Come viene la morte, nella tua epoca?»
«Mai all’improvviso. Mai così. Io ne so pochissimo.»
Sembrava affascinato dalla presenza della morte molto più di quanto lo fosse stato dalla creazione della vita, in quella stessa sala. Il medico si dava da fare; ma Kolff non reagiva, e noi stavamo in cerchio, immobili come statue. Soltanto Aster si muoveva: raccoglieva gli esseri che Kolff aveva fatto cadere nella sua ultima convulsione. Alcuni erano morti anch’essi, per l’esposizione all’aria o perché calpestati da piedi noncuranti. Ma alcuni erano sopravvissuti. Li rimise dentro una vasca.
Alla fine il medico si alzò, scuotendo il capo.
Guardai Kralick. Piangeva.
XV
Kolff venne sepolto a New York con grandi onori accademici. Per rispetto, interrompemmo per qualche giorno il nostro giro. Vornan presenziò al funerale. Le consuetudini delle nostre esequie l’incuriosivano moltissimo. La sua presenza alla cerimonia per poco non causò una crisi, perché gli accademici togati gli si strinsero intorno per vederlo da vicino, e ad un certo punto temetti che, in quella confusione, la bara finisse per rovesciarsi. Tre libri andarono nella tomba insieme a Kolff. Due erano opere sue; la terza era la traduzione in ebraico della Nuova Rivelazione. Questo particolare mi irritò, ma Kralick mi spiegò che era stata un’idea dello stesso Kolff. Tre o quattro giorni prima della fine aveva consegnato a Helen McIlwain un nastro sigillato che, come risultò poi, conteneva le istruzioni per il funerale.
Dopo il periodo di lutto ci dirigemmo di nuovo verso Ovest per proseguire il giro. Era sorprendente la rapidità con cui la morte di Kolff aveva smesso di avere importanza per noi; adesso eravamo cinque, anziché sei, ma il trauma del suo collasso si attenuò in fretta, e ben presto riprendemmo la nostra routine. Quando il clima divenne più caldo, però, risultarono evidenti certi cambiamenti d’atmosfera. La vendita della Nuova Rivelazione sembrava finita, poiché ormai virtualmente tutti, nel Paese, ne avevano una copia, e le folle che seguivano i movimenti di Vornan diventavano ogni giorno più numerose. Spuntavano dovunque profeti secondari, interpreti del messaggio di Vornan all’umanità. Il centro di gran parte dell’attività era in California, come al solito, e Kralick si preoccupava di tenere Vornan lontano da quello Stato. Era turbato da quel culto crescente, come lo ero io, come lo eravamo tutti. Soltanto Vornan pareva godere della presenza del suo gregge. Anche lui, talvolta, sembrava un po’ in apprensione, come quando atterravamo in un aeroporto e trovavamo un mare di volumetti dalla copertina rossa che luccicavano al sole. Almeno, avevo l’impressione che le folle veramente oceaniche lo mettessero a disagio; ma quasi sempre aveva l’aria di sguazzare nell’attenzione suscitata. Un giornale californiano aveva proposto, con la massima serietà, che Vornan venisse scelto come candidato al Senato per le prossime elezioni. Quando il facsimile con le notizie arrivò, trovai Kralick quasi in convulsioni. «Se Vornan lo vede,» mi disse, «potremmo ritrovarci in un bel guaio»
Per fortuna, non ci sarebbe stato un senatore Vornan. In un momento di maggiore calma, ci convincemmo che non poteva vantare il requisito della residenza; e poi, dubitavamo che i tribunali avrebbero accettato un membro della Centralità come cittadino degli Stati Uniti, a meno che Vornan avesse la possibilità di dimostrare che la Centralità era succeduta legalmente alla sovranità degli Stati Uniti.
Il programma prevedeva che Vornan venisse condotto sulla Luna alla fine di maggio, per vedere il centro di villeggiatura che vi era stato realizzato da poco. Chiesi di essere esentato: non ci tenevo veramente a visitare i palazzi degli svaghi di Copernico, e mi pareva che avrei potuto approfittare di quei giorni di libertà per mettere in ordine i miei affari ad Irvine, dato che eravamo quasi alla fine del semestre. Kralick voleva che andassi, soprattutto perché mi ero già preso un permesso; ma non aveva la possibilità di obbligarmi, e alla fine dovette lasciarmi fare. Una commissione di quattro persone, decise, poteva occuparsi di Vornan quanto una di cinque.
Ma in realtà, la commissione si era ridotta a quattro componenti, quando partirono per la base lunare.
Fields si dimise alla vigilia della partenza. Kralick doveva averlo previsto, perché Fields da settimane borbottava e mugugnava, ed era ormai in aperta ribellione nei confronti dell’incarico affidatogli. Come psicologo, Fields aveva studiato le reazioni di Vornan all’ambiente mentre ce ne andavamo in giro, ed era arrivato a due o tre valutazioni contraddittorie, che si elidevano a vicenda. A seconda dell’umore del momento, Fields concludeva che Vornan era o non era un impostore, e inoltrava rapporti che coprivano quasi tutte le possibilità. La mia valutazione personale dei giudizi di Fields era che non avessero alcun valore. Le sue interpretazioni cosmiche delle azioni di Vornan erano vuote e inconsistenti; ma questo avrei potuto anche perdonarglielo, se Fields fosse rimasto della stessa opinione per più di due settimane consecutive.
Le sue dimissioni dalla commissione, comunque, non avevano basi ideologiche. Erano state provocate soltanto da una meschina gelosia. E debbo riconoscere, per quanto Fields mi fosse poco simpatico, che in questo caso lo capivo benissimo.
Il guaio era incominciato a causa di Aster. Fields la stava ancora corteggiando, con una sorta di disperato slancio romantico che era ripugnante per il resto di noi quanto per lui era deprimente. Aster non voleva saperne: questo era chiarissimo, persino per Fields. Ma la vicinanza gioca strani scherzi all’ego di un uomo, e Fields si ostinava nei suoi tentativi. Corrompeva gli impiegati degli alberghi perché gli assegnassero una stanza accanto a quella di lei, e di notte cercava in tutti i modi d’infilarsi nel suo letto. Aster era irritata, anche se meno di quanto lo sarebbe stata una vera donna di carne e di sangue; sotto molti punti di vista era artificiale quanto i suoi celenterati, e sottovalutava gli ansiti e i sospiri byroniani del suo troppo ardente corteggiatore.
Come mi raccontò Helen McIlwam, Fields era sempre più visibilmente esasperato da questo trattamento. Alla fine, una sera, mentre erano tutti riuniti, chiese di punto in bianco ad Aster di passare la notte con lui. Lei rispose di no. Fields allora si lanciò in un tagliente commento sui difetti della libido di Aster. Gridando rabbiosamente l’accusò di frigidità, perversione, malevolenza e di parecchie forme di carogneria. In un certo senso, tutto ciò che disse di Aster era probabilmente vero, con un fattore limitativo, però: lei era carogna non intenzionalmente. Non credo che avesse mai cercato di provocarlo. Si era limitata a non capire che tipo di reazione Fields si aspettava da lei.