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Dedicava solo pochi paragrafi alla questione dell’autentiticità di Vornan. Negli ultimi sei mesi, Fields aveva nutrito sull’argomento una varietà di opinioni contrastanti, e lì, in poco spazio, riusciva ad ammucchiare tutte le sue contraddizioni. In effetti diceva che probabilmente Vornan non era un impostore, ma che ci saremmo meritati che lo fosse, e in ogni caso questo non aveva importanza. Ciò che contava non era la verità assoluta sul conto di Vornan, ma solo il suo effetto sull’anno 1999. Credo che, in questo, Fields avesse ragione. Impostore o no, Vornan aveva avuto su tutti noi un effetto innegabile, e la potenza del suo passaggio nel nostro mondo era autentica, anche se forse non era autentico Vornan quale viaggiatore nel tempo.

Perciò Fields liquidava il problema in un ammasso di ambiguità confuse e passava ad un’interpretazione del ruolo culturale di Vornan in mezzo a noi. Era molto semplice, diceva. Vornan era un dio. Era una divinità e un profeta in una sola persona, un autopropagandista onnipotente, che si offriva come personificazione delle aspirazioni vaghe e nebbiose di un pianeta i cui abitanti avevano avuto troppe comodità, troppe tensioni, troppe paure. Era un dio per i nostri tempi, irradiante un’elettricità che poteva o no essere prodotta da batterie innestate chirurgicamente; un dio che, come Zeus, portava i mortali nel suo letto; un dio che provocava guai, sfuggente, elusivo, godereccio, che non dava niente e accettava molto. Dovete rendervi conto che, nel riassumere i pensieri di Fields li sintetizzo molto e li dipano, eliminando le spine ed i rovi del dogmatismo eccessivo e lasciando soltanto la teoria centrale, su cui sono interamente d’accordo. Senza dubbio, Fields aveva colto bene l’essenza della nostra reazione a Vornan.

Nella Nuovissima Rivelazione, Fields non diceva mai che Vornan-19 era letteralmente divino, così come non esprimeva mai un giudizio sulla veridicità della sua affermazione di essere venuto dal futuro. A Fields non interessava che Vornan fosse autentico o no, e certamente non lo considerava in alcun modo un essere sovrannaturale. In realtà diceva — ed io lo credo di tutto cuore — che noi avevamo fatto di Vornan un dio. Avevamo avuto bisogno di una divinità che presiedesse alla nostra entrata nel nuovo millennio, poiché i vecchi dèi avevano abdicato; e Vornan era venuto a sopperire alle nostre esigenze. Fields, in effetti, nel suo libro analizzava l’umanità, non valutava Vornan.

Ma naturalmente l’umanità nel suo complesso non è capace di assorbire distinzioni tanto sottili. Lì c’era un libro rilegato in rosso, e affermava che Vornan era un dio! Lasciamo perdere le confusioni e le reticenze, lasciamo perdere le nebulosità erudite. La condizione divina di Vornan era stata proclamata ufficialmente! E da «egli è un dio» ad «Egli è Dio», il passo e molto breve. La Nuovissima Rivelazione divenne una sacra scrittura. Non diceva, a parole stampate nero su bianco, che Vornan era divino? Come si poteva ignorare una simile affermazione?

Il procedimento magico seguì le aspettative. Il libriccino rosso venne tradotto in tutte le lingue dell’umanità, poiché serviva da sacra giustificazione alla pazzia del culto di Vornan. I fedeli avevano un altro talismano da portarsi in giro. E Morton Fields diventò il San Paolo del nuovo credo, il press agent del profeta. Sebbene non rivedesse mai più Vornan, e non prendesse mai parte attiva al movimento che involontariamente aveva contribuito a lanciare, grazie al suo immondo libretto Fields era già diventato un’importantissima presenza invisibile nel culto che ora dilagava nel mondo. Immagino che verrà collocato in una posizione elevatissima nel canone dei santi, quando si cominceranno a scrivere le nuove agiologie.

Quando lessi la mia copia-pilota del libro di Fields, all’inizio di agosto, non riuscii a prevedere l’effetto che avrebbe avuto. Lo lessi in fretta, e con quella sorta di gelo affascinato che si prova quando, alzando una grossa pietra sulla riva del mare, si scoprono sotto questa essermi bianchi e striscianti; e poi lo gettai via, schifato e divertito, e me ne dimenticai completamente fino a quando la sua importanza divenne manifesta. Mi presentai diligentemente a San Francisco per accogliere Vornan quando arrivò dalla Luna. Allo spazioporto erano in atto i soliti sotterfugi e le solite precauzioni. Mentre una folla ruggente agitava nell’aria le copie della Nuova Rivelazione sotto un cielo grigio e nebbioso, Vornan, attraverso una galleria sotterranea, raggiungeva il bordo dello spazioporto.

Mi strinse calorosamente la mano. «Leo, avresti dovuto venire,» disse. «È stato delizioso. Il trionfo della vostra epoca, direi, quel centro per vacanze sulla Luna. E tu che cos’hai fatto di bello?»

«Ho letto, Vornan. Ho riposato. E lavorato.»

«Con buoni risultati?»

«Senza nessun risultato.»

Lui era disinvolto, rilassato, sicuro di sé come sempre. Un po’ della sua radiosità si era comunicata ad Aster, che gli stava accanto con aria apertamente possessiva. Non era più l’Aster assente, incolore e cristallina che ricordavo io, ma una donna calda e appassionata, finalmente conscia della propria anima. In qualunque modo Vornan avesse operato quel miracolo, era indubbiamente la sua impresa più sensazionale. La trasformazione di Aster era straordinaria. Le guardai gli occhi e, nelle loro liquide profondità, scorsi un sorriso segreto. D’altra parte, Helen McIlwain sembrava vecchia e svuotata, con il volto afflosciato, i capelli ruvidi, il portamento stanco. Per la prima volta, sembrava una donna di mezza età. Più tardi scoprii che cosa la tormentava: si sentiva battuta da Aster, perché aveva sempre presunto che Vornan la considerasse una specie di consorte, ed era chiaro che quel ruolo era passato all’altra. Anche Heyman sembrava infiacchito. La pesantezza teutonica che tanto detestavo in lui era sparita. Parlò poco, quasi senza salutare: era remoto, distratto, svanito. Mi ricordò Llyod Kolff nelle sue ultime settimane di vita. L’esposizione prolungata alla vicinanza di Vornan, evidentemente, presentava un certo pericolo. Persino Kralick, duro e adattabile, sembrava un po’ teso. La sua mano tremava, quando me la porse; le dita tendevano ad allontanarsi una dalla altra, e doveva sforzarsi consciamente per tenerle unite.

In apparenza, comunque, l’incontro fu piacevole. Nessuno parlò delle tensioni che si erano create, e neppure dell’apostasia dell’odioso Fields. Viaggiai con Vornan durante il tragitto verso il centro di San Francisco, e moltitudini acclamanti si ammassavano lungo il percorso, talvolta bloccandolo, come se fosse arrivato un personaggio d’importanza enorme.

Riprendemmo il nostro giro interrotto.

Vornan ormai aveva visto degli Stati Uniti tutto ciò che poteva venire considerato un campione adeguatamente rappresentativo, e adesso l’itinerario prevedeva che andasse all’estero. In teoria, la responsabilità del nostro governo sarebbe cessata a quel punto. Non eravamo stati noi a portare in giro Vornan nei primi tempi della sua visita al ventesimo secolo, quando aveva esplorato (e demoralizzato) le capitali europee; avremmo dovuto passarlo ad altri, ora che si spostava verso occidente. Ma le responsabilità finiscono per istituzionalizzarsi. Sandy Kralick mantenne l’incombenza di condurre Vornan di qua e di là, poiché ormai era la massima autorità mondiale in materia; ed Aster, Helen, Heyman ed io eravamo trascinati nell’orbita di Vornan. Non protestai. Ero tropo ansioso di sottrarmi al mio lavoro.

Perciò viaggiammo. Andammo in Messico, facemmo il giro delle città morte di Chichén Itzá e di Uxmal, visitammo le piramidi maya a mezzanotte, e poi andammo a Città del Messico per vedere la metropoli più vibrante dell’emisfero. Vornan se la prese con molta calma. Il suo umore acquietato, che era spuntato con la primavera, perdurava ancora alla fine dell’estate. Non commetteva più sacrilegi verbali, non formulava imprevedibili commenti scabrosi, non sovvertiva più i piani e programmi che lo riguardavano. Adesso il suo comportamento sembrava spasmodico e apatico. Non si prendeva più la briga di farci infuriare. Mi chiedevo perché. Era malato? Il suo sorriso era abbagliante come sempre, ma non aveva più vitalità; ormai, era tutto facciata. Compiva pigramente il suo giro del mondo e reagiva in modo puramente meccanico a tutto ciò che vedevamo. Kralick sembrava preoccupato. Anche lui preferiva il dèmone Vornan a Vornan l’automa, e si domandava perché mai aveva perduto tutta la sua animazione.