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Shirley sembrava quasi disperata. La sua goffaggine irritava me, che ero il testimone involontario. La vedevo strusciarsi contro Vornan, per premergli un seno sodo contro la schiena mentre fingeva di prendere la bottiglia vuota che lui aveva posato per terra; la vedevo invitarlo sfacciatamente con gli occhi; la vedevo stendersi in pose studiatamente provocanti che in passato aveva sempre evitato per istinto. Non serviva a nulla. Forse, se fosse entrata nella stanza di Vornan, di notte, e gli si fosse buttata addosso, avrebbe ottenuto ciò che voleva; ma il suo orgoglio le impediva di spingersi a tanto. E così diventava volgare per la frustrazione. Ritornò quella sua brutta risatina stridula. Rivolgeva a Jack o a Vornan o a me osservazioni che rivelavano un’ostilità malcelata. Rovesciava o lasciava cadere gli oggetti. A me, tutto questo faceva un effetto deprimente, perché io avevo mostrato molto tatto con lei, non per pochi giorni, ma per dieci anni interi; avevo resistito alla tentazione, mi ero negato il piacere proibito di prendere la moglie del mio amico. Non mi si era mai offerta come adesso si offriva a Vornan. Non mi piaceva vederla così, e l’ironia della situazione non mi divertiva.

Jack era totalmente ignaro del tormento di sua moglie. Era così affascinato da Vornan che non riusciva ad osservare quanto accadeva intorno a lui. Nel suo isolamento in mezzo al deserto, Jack non aveva avuto occasione di farsi nuovi amici, in tanti anni, e aveva avuto pochi contatti con quelli vecchi. Adesso si era attaccato a Vornan esattamente come un bambino solitario si attaccherebbe ad un nuovo venuto nel quartiere. Scelgo volutamente questo paragone; c’era qualcosa di adolescenziale o addirittura di subadolescenziale nella resa di Jack a Vornan. Parlava incessantemente, presentandosi sullo sfondo della sua carriera universitaria, descrivendo le ragioni del suo ritiro nel deserto, portando persino Vornan giù, in quel laboratorio dove io non ero mai entrato, e dove mostrava al suo ospite il manoscritto segreto dell’autobiografia. Per quanto si trattasse di argomenti intimi, Jack ne parlava liberamente, come un ragazzino che mette in mostra i suoi giocattoli più cari. Comprava l’attenzione di Vornan con uno sforzo frenetico. Sembrava che lo considerasse un caro amico. Io, che avevo sempre giudicato Vornan indicibilmente alieno, ed ero arrivato ad accettarlo come autentico soprattutto perché m’ispirava uno sgomento misterioso, trovavo sconvolgente vedere Jack soccombere in quel modo. Vornan sembrava soddisfatto e divertito. Di tanto in tanto sparivano in laboratorio per ore ed ore. Mi dicevo che era un sistema escogitato da Jack per estorcere a Vornan le informazioni desiderate. Era furbo, no, costruire un rapporto così intenso allo scopo di poter sondare la mente di Vornan?

Ma Jack non otteneva informazioni da lui. E nella mia cecità, io non mi accorgevo di niente.

Come potevo non vederlo? Quell’espressione di confusione assorta e sognante che Jack aveva ormai quasi sempre? I momenti in cui abbassava gli occhi, distogliendoli da Shirley o da me, con le guance accese da un imbarazzo sconosciuto? Anche quando vedevo Vornan posare la mano, in un gesto possessivo, sulla spalla nuda di Jack, rimanevo cieco.

Shirley ed io trascorrevamo insieme più tempo, in quei giorni, che nelle mie visite precedenti, perché Jack e Vornan se ne andavano sempre per i fatti loro. Non approfittai dell’occasione. Parlavamo poco, ma stavamo sdraiati fianco a fianco, crogiolandoci al Sole. Shirley sembrava così tesa e nervosa che non sapevo mai cosa dirle, e perciò tacevo. L’Arizona era avvolta da un’ondata di calore autunnale. Il caldo saliva bollendo dal Messico verso di noi, e ci stordiva. La pelle nuda di Shirley brillava come uno splendido bronzo. La stanchezza mi abbandonava. Parecchie volte, lei mi sembrò sul punto di parlare, ma poi le parole le morivano in gola. Si creò una sorta di tensione. Istintivamente, sentivo un guaio nell’aria, come si sente l’avvicinarsi d’un temporale estivo. Ma non capivo cosa non andasse; ero chiuso in un bozzolo di calore, captavo le emanazioni incerte di un imminente cataclisma, eppure fino al momento del disastro non mi resi conto della situazione.

Accadde il dodicesimo giorno della nostra visita. Era l’ultimo giorno di ottobre, ma il caldo eccezionale perdurava; a mezzogiorno il Sole era un occhio sfolgorante di cui non si poteva reggere lo sguardo, ed io non resistevo più a restare all’aperto. Mi scusai con Shirley (Jack e Vornan non si vedevano) e andai in camera mia. Mentre rendevo opaca la finestra, indugiai per guardare Shirley, distesa torpidamente sul terrazzo, con gli occhi schermati, il ginocchio sinistro sollevato, i seni che si alzavano e si abbassavano lentamente, la pelle luccicante di sudore. Era l’immagine del rilassamento totale, pensai, la bella donna languida che sonnecchia nel calore del meriggio. E poi notai la sua mano sinistra, stretta rabbiosamente a pugno, che tremava al polso, facendo pulsare i muscoli di tutto il braccio. E compresi che la sua posa era una conscia finzione di tranquillità, mantenuta per pura forza di volontà.

Oscurai la stanza e mi stesi sul letto. L’aria fresca, in casa, era ristoratrice. Forse mi addormentai. Aprii gli occhi quando sentii il rumore di qualcuno alla mia porta. Mi levai a sedere.

Shirley si precipitò nella stanza. Sembrava fuori di sé: gli occhi sbarrati per l’orrore, le labbra contratte, i seni scossi dall’ansito. Aveva il volto cremisi. Lucide gocce di sudore, notai con bizzarra chiarezza, le coprivano la pelle, e c’era un rivoletto scintillante nella valle del petto. «Leo…» disse con voce rauca, soffocata. «Oh Dio, Leo!»

«Cosa c’è? Cos’è successo?»

Avanzò barcollando e crollò, con le ginocchia contro il materasso. Sembrava quasi in stato di shock. Muoveva le mascelle, ma non ne usciva alcun suono.

«Shirley!»

«Sì,» mormorò lei. «Sì. Jack… Vornan… oh, Leo, avevo ragione! Non volevo crederlo, ma avevo ragione. Li ho visti! Li ho visti!»

«Ma cosa stai dicendo?»

«Fra il momento del pranzo.» disse lei, deglutendo, cercando di calmarsi. «Mi sono svegliata sul terrazzo e sono andata a cercarli. Erano nel laboratorio di Jack, come al solito. Quando ho bussato non mi hanno risposto, ed ho aperto l’uscio, e ho visto perché non rispondevano. Erano occupati. Uno con l’altro… Uno… con… l’altro. Le braccia e le gambe, uno addosso all’altro. Li ho visti. Sono rimasta lì quasi un minuto a guardare. Oh, Leo, Leo, Leo!»

La sua voce divenne un grido penetrante. Si gettò avanti, disperata, singultando, distrutta. L’afferrai mentre mi cadeva addosso. I globi pesanti dei seni premettero con punte di fiamma contro la mia pelle fresca. Con l’occhio della mente potevo vedere la scena che mi aveva descritta; adesso che l’evidenza mi colpiva, gemetti per la mia stupidità, per la cattiveria di Vornan, per l’ingenuità di Jack. Fremetti, mentre immaginavo Vornan avvinto addosso a lui come un gigantesco invertebrato predatore e poi non ebbi tempo di pensare ad altro. Shirley era tra le mie braccia, tremante e nuda e appiccicosa di sudore e piangente. La consolai e lei si aggrappò a me, cercando un’isola di stabilità in un mondo improvvisamente sovvertito; e l’abbraccio del conforto che le avevo offerto divenne rapidamente qualcosa di ben diverso. Non riuscivo a dominarmi, e lei non resisteva: accolse la mia invasione, per sollievo o per vendetta, e finalmente il mio corpo penetrò il suo, e cademmo, congiunti e ansimanti, sul cuscino.

XVII

Dissi a Kralick di tirar fuori di lì me e Vornan, poche ore dopo. Non spiegai niente a nessuno. Dissi soltanto che dovevamo andarcene. Non vi furono addii. Ci vestimmo e facemmo i bagagli, e condussi Vornan a Tucson, dove gli uomini di Kralick vennero a prenderci.

Ora che ci ripenso, mi rendo conto che quella fuga fu dettata dal panico. Forse avrei dovuto restare con loro. Forse avrei dovuto cercare di aiutarli a ricostruirsi. Ma in quell’istante caotico sentii di dover fuggire. L’atmosfera di colpa era troppo soffocante e la trama delle vergogne intrecciate troppo serrata. Ciò che era successo tra Vornan e Jack e ciò che era successo tra Shirley e me era inestricabilmente annodato nella trama della catastrofe, come forse c’era anche quello che non era accaduto tra Shirley e Vornan. Ed ero stato io a portare tra loro il serpente. In quel momento di crisi avevo rinunciato al vantaggio morale che avrei potuto avere, perché avevo ceduto all’impulso e poi ero scappato. Io ero il colpevole. Io ero responsabile.