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La settimana di quel Natale in cui Vornan-19 scese nel nostro mondo, ero corso a casa loro spinto da un’esigenza profonda. Il mio lavoro mi sembrava insoddisfacente. Era la disperazione della stanchezza: per quindici anni ero vissuto sull’orlo del successo, perché non vi sono soltanto abissi ma anche precipizi, ed io avevo scalato un precipizio. Via via che salivo, la vetta si allontanava, e alla fine mi ero convinto che la vetta non esisteva, c’era soltanto un’illusione, e che in ogni caso ciò che avevo fatto non meritava la dedizione che gli avevo riservato. Quei momenti di dubbio totale mi prendevano frequentemente, e so che erano irrazionali. Immagino che ognuno debba abbandonarsi periodicamente alla paura di avere sprecato la propria vita, ad eccezione di coloro che l’hanno veramente sprecata e, per loro fortuna, non sono in grado di capirlo. Il pubblicitario che mette tutto l’impegno per riempire il cielo di una fulgida, turbinante nebulosa di propaganda? Il dirigente di media tacca che sputa l’anima per stilare relazioni? Il progettista di carrozzerie d’auto, l’agente di cambio, il preside di un college? Hanno mai una crisi dei valori, quelli?

La mia crisi dei valori mi aveva riafferrato. Ero bloccato nel mio lavoro, e mi ero rifugiato da Jack e Shirley. Poco prima di Natale chiusi il mio ufficio, feci sospendere la consegna della posta, e mi autoinvitai in Arizona per un soggiorno di durata indefinita. Il mio programma di lavoro non era sincronizzato con i semestri e le vacanze dell’Università; lavoro quando ne ho voglia, e mi fermo quando ne ho bisogno.

Ci vogliono tre ore per andare da Irvine a Tucson. Caricai la macchina su un veicolo da trasporto diretto oltre le montagne, e mi lasciai trascinare verso Est lungo la rotaia scintillante, programmata per i viaggi brevi. Il cervello ticchettante nella Sierra Nevada fece il resto; nella sua onniscienza mi staccò al momento giusto dal percorso per Phoenix, mi dirottò su quello per Tucson, mi fece decelerare dalla velocità di cinquecento chilometri orari, e mi scaricò sano e salvo al deposito, dove i comandi manuali della macchina vennero riattivati. Era dicembre e, sulla Costa, pioveva e faceva piuttosto freddo, ma lì il Sole splendeva allegramente e la temperatura era intorno ai trenta gradi. Mi fermai a Tucson per ricaricare la batteria della macchina, sottraendo alla Southern California Edison qualche dollaro d’introito perché avevo dimenticato di provvedere prima della partenza. Poi mi avventurai nel deserto. Seguii la vecchia Interstatale 89 per il primo tratto, dopo quindici minuti mi immisi su di una strada di contea e poi lasciai anche quella modesta arteria per un semplice vaso capillare che portava in quell’angoletto disabitato di deserto. Quasi tutta la zona appartiene agli indiani Papago, e per questo è sfuggita all’epidemia dell’incremento edilizio che avviluppa Tucson; e non so bene come avessero fatto Shirley e Jack ad acquistare il loro piccolo pezzo di terra. Ma erano soli, per quanto possa sembrare incredibile alla vigilia del secolo ventunesimo. Ci sono ancora posti così, negli Stati Uniti, dove uno si può ritirare come avevano fatto quei due. L’ultimo tratto di quaranta chilometri era una pista sterrata e sassosa che poteva venire chiamata strada solo con un’acrobazia semantica. Il tempo si dileguò; era come se seguissi il percorso di uno dei miei elettroni, a ritroso, verso l’alba del mondo. Era il vuoto, ed aveva il potere di estrarre il tormento da un’anima angosciata, come una pompa che sottrae il calore e placa la danza delle molecole.

Arrivai a pomeriggio inoltrato. Dietro di me si stendevano solchi profondi e terreno riarso. Alla mia sinistra s’innalzavano montagne purpuree cinte di nuvole, che deviavano verso il confine messicano, e guidavano il mio occhio verso il deserto piatto e sassoso in cui la casa dei Bryant rappresentava l’unica intrusione moderna. Un torrente in secca, in cui da secoli non scorreva più l’acqua, cingeva la loro proprietà. Parcheggiai la macchina lì accanto e mi avviai verso la casa.

I Bryant vivevano in una villa che aveva una ventina d’anni, fatta di mogano e vetro, alta due piani, con una terrazza sul retro. Sotto l’edificio c’era il suo organismo vitale: un reattore Fermi che forniva l’energia per il condizionatore, l’impianto dell’acqua, l’illuminazione ed il riscaldamento. Una volta al mese l’incaricato della Tucson Gas Electric arrivava a rifornire l’impianto, come imponeva la legge quando un’azienda elettrica aveva rifiutato di stabilire un collegamento via cavi e aveva istallato invece un generatore. Il magazzino sotto la casa, lungo cinquanta metri, conteneva anche i viveri per un mese, ed il purificatore dell’acqua era indipendente dai servizi cittadini. La civiltà poteva scomparire completamente senza che Shirley e Jack se ne accorgessero per diverse settimane.

Shirley era sul terrazzo, occupatissima con una delle sue sculture soniche, e filava una cosa vaporosa di fili complicati e lamine lucenti, il cui sommesso cinguettio da uccellino giungeva lontano, perché attraversava il deserto per arrivare fino a me. Shirley finì quello che stava facendo, poi si alzò e mi corse incontro, a braccia tese, e con i seni ondeggianti. Quando l’abbracciai, sentii la stanchezza abbandonarmi, in parte.

«Dov’è Jack?» chiesi.

«Sta scrivendo. Fra un po’ verrà fuori. Qua, lascia che ti aiuti a portare la tua roba. Hai un aspetto terribile, mio caro.»

«Me l’hanno detto anche altri.»

«Ci penseremo noi.»

Mi prese la valigia dalle mani ed entrò in casa. L’ancheggiare polposo delle sue natiche nude ebbe su di me un effetto rassicurante e ristoratore: rivolsi un gran sorriso a quelle sode guance posteriori che scomparivano alla mia vista. Ero tra amici. Ero tornato a casa. In quel momento, avrei voluto restare con loro per mesi interi.

Andai in camera mia. Shirley aveva preparato tutto: biancheria pulita, alcune bobine vicino al lettore, una lampada sul tavolo, un blocco e una stilo ed un registratore, caso mai avessi voluto buttar giù qualche idea. Poi comparve Jack, mi mise in mano una bottiglia di birra ed io l’aprii. Ci scambiammo una strizzata d’occhio, contenti di vederci.

Quella sera, Shirley combinò una cena magica, e poi, mentre il calore fuggiva dal deserto in quella sera d’inverno, ci mettemmo tranquilli in soggiorno a chiacchierare. Per fortuna, loro non dissero niente del mio lavoro. Parlammo invece degli Apocalittici, perché i Bryant erano affascinati da quel culto della fine del mondo che stava ormai infestando tanta gente.

«Li ho studiati attentamente,» disse Jack. «Tu segui questa faccenda?»

«Non proprio.»

«A quanto sembra, succede ogni mille anni. Quando il millennio sta per concludersi, si diffonde la convinzione che il mondo stia per finire. Fu una cosa piuttosto seria, verso il 999. All’inizio ci credevano soltanto i contadini, ma poi alcuni ecclesiastici molto evoluti cominciarono a farsi contagiare dalla febbre, e fu fatta. Ci furono orge di preghiera, ed anche orge di tutt’altro genere.»

«E quando arrivò l’anno mille?» domandai. «Il mondo sopravvisse, e che fine fece quel culto?»

Shirley rise. «Per loro fu una grossa delusione. Ma la gente non impara mai.»

«E gli Apocalittici, come credono che debba finire il mondo?»

«Nel fuoco,» disse Jack.

«Il flagello di Dio?»

«Prevedono una guerra. Sono convinti che i capi di Stato del mondo l’abbiano già predisposta, e che i fuochi infernali verranno scatenati il primo giorno del nuovo secolo.»

«Non ci sono più state guerre degne di questo nome in cinquanta e passa anni,» dissi io. «L’ultima volta che un’arma atomica venne usata a fini bellici fu nel 1945. Non si potrebbe presumere che abbiamo realizzato le tecniche necessarie per scansare l’apocalisse, ormai?»