A Bogotà la folla era ancora più numerosa. Grida stridule echeggiavano nell’aria rarefatta dell’altopiano. Vornan parlò di nuovo, e fu un altro sermone imbottito di luoghi comuni. Kralick era preoccupato. «Sta preparando qualcosa,» mi disse. «Non aveva mai parlato così. Sta veramente cercando di arrivare direttamente al cuore della folla, invece di lasciare che siano le moltitudini a venire a lui.»
«Interrompi il giro, allora,» gli suggerii.
«Non possiamo. Ormai ci siamo impegnati.»
«Proibitegli di tenere discorsi.»
«Come?» chiese Kralick: e non c’erano risposte.
Lo stesso Vornan sembrava affascinato dalle masse che accorrevano a vederlo. Non erano semplici gruppi di cacciatori di curiosità: erano orde gigantesche che sapevano della presenza di un dio alieno sulla Terra, e ardevano dal desiderio di vederlo. Era chiaro che adesso lui si rendeva conto del proprio ascendente, e cominciava a sfruttarlo. Notai, tuttavia, che non si esponeva più fisicamente alle folle. Sembrava temesse qualcosa e restava sui balconi o a bordo di automobili blindate.
«Gridano perché vogliono che tu scenda in mezzo a loro,» gli dissi, di fronte ad una moltitudine ruggente, a Lima. «Non lo senti, Vornan?»
«Vorrei poterlo fare,» disse lui.
«Niente te lo impedisce.»
«Sì. Sì. Sono troppi. Ci sarebbe il caos.»
«Metti uno scudo antifolla,» suggerì Helen McIlwain.
Vornan si girò di scatto. «Che cos’è, prego?»
«Gli uomini politici li portano. Uno scudo antifolla è una sfera elettronica d’energia che circonda chi la porta. È stato ideato appositamente per proteggere le personalità pubbliche in mezzo alla gente. Se qualcuno si avvicina troppo, lo scudo emette una lieve scossa. Saresti del tutto al sicuro, Vornan.»
Lui chiese a Kralick: «È proprio vero? Potresti procurarmi uno di questi scudi?»
«Credo di sì,» rispose Kralick.
Il giorno seguente, a Buenos Aires, l’ambasciata americana ci consegnò uno scudo. Era stato usato l’ultima volta dal Presidente durante la sua visita in America Latina. Un funzionario dell’ambasciata mostrò come funzionava, fissando gli elettrodi, assestandosi sul petto la batteria. «Provate ad avvicinarvi a me,» disse, con un cenno. «Radunatevi qui intorno.»
Ci avvicinammo. Una dolce luminescenza ambrata lo circondò. Avanzammo ancora, e all’improvviso urtammo una barriera impenetrabile. Non era una sensazione dolorosa, ma in quel suo modo sottile era completamente efficiente: venimmo ributtati indietro. Era impossibile accostarsi a meno di un metro da chi portava l’ordigno. Vornan sembrava felice. «Mi faccia provare,» disse. Il funzionario gli mise addosso lo scudo e gli insegnò ad usarlo. Vornan rise e disse: «Tutti voi, stringetevi intorno a me, adesso. Spingete e premete. Più forte! Più forte.» Impossibile toccarlo. Soddisfatto, lui disse: «Bene. Ora posso andare tra la mia gente.»
Più tardi, presi in disparte Kralick e gli chiesi: «Perché gli hai consegnato quello scudo?»
«Lo ha chiesto.»
«Avresti potuto dirgli che non funzionava bene o qualcosa del genere, Sandy. Non c’è la possibilità che lo scudo faccia cilecca in un momento critico?»
«Normalmente no,» disse Kralick. Prese lo scudo, lo aprì, e richiuse lo sportello della batteria. «C’è solo un punto debole, nel circuito, ed è qui, questo modulo integrato. In realtà, non si può vedere. Ha la tendenza a sovraccaricarsi in certe circostanze ed a bruciare, provocando la caduta del campo. Ma c’è un circuito supplementare che entra automaticamente in funzione, Leo, in un paio di microsecondi. In realtà, uno scudo antifolla può guastarsi solo in un modo: deve essere volutamente sabotato. Diciamo, se qualcuno manomette il circuito d’emergenza, e poi il modulo principale si sovraccarica. Ma io non conosco nessuno che farebbe una cosa simile.»
«Tranne Vornan, forse.»
«Beh, sì. Vornan è capace di tutto. Ma non credo che abbia voglia di manomettere lo scudo che lo difende. A tutti gli effetti, con questo sarà perfettamente al sicuro.»
«Beh, allora,» dissi io, «non hai paura di quello che succederà, adesso che può andare in mezzo alla folla a diffondere veramente il suo carisma?»
«Sì,» rispose Kralick.
Buenos Aires fu il teatro delle più grandi manifestazioni di fanatismo per Vornan che avessimo mai visto. Era la città in cui si era presentato un falso Vornan, e la presenza di quello vero elettrizzava gli argentini. L’ampia, alberata Avenida 9 de Julio era piena zeppa, e soltanto l’obelisco al centro emergeva dalla massa di carne. In quella folla caotica e fremente, passò il corteo. Vornan portava lo scudo antifolla; noi non eravamo altrettanto protetti, e ce ne stavamo rannicchiati nervosamente nei veicoli blindati. Di tanto in tanto, Vornan scendeva e si aggirava tra la calca. Lo scudo funzionava (nessuno gli si poteva avvicinare), ma il semplice fatto che fosse in mezzo a loro mandava in estasi quei fanatici. Si accalcavano il più possibile vicino, fino al limite assoluto della barriera elettronica, schiacciandosi contro di essa, mentre Vornan, raggiante, sorrideva e s’inchinava. Dissi a Kralick: «Ci stiamo rendendo complici di questa pazzia. Non avremmo mai dovuto permettere che tutto ciò accadesse.»
Kralick mi rivolse un sogghigno e mi disse di prenderla con calma. Ma io non riuscivo a rilassarmi. Quella sera Vornan concesse un’altra intervista, e ciò che disse era francamente utopistico. Il mondo aveva un bisogno disperato di riforme: troppa potenza si era concentrata nelle mani di pochi individui: un’epoca di ricchezza universale era imminente, ma per realizzarla era necessaria la collaborazione di masse illuminate. «Siamo nati dai rifiuti,» disse. «Ma abbiamo la capacità di diventare dèi. So che è possibile. Nella mia epoca non vi sono malattie, non c’è miseria, non ci sono sofferenze. Persino la morte è stata abolita. Ma l’umanità deve attendere mille anni per godere di questi benefici? Dovete agire ora. Subito.»
Sembrava un appello alla rivoluzione.
Fino a quel momento, Vornan non aveva annunciato un programma specifico. Lanciava solo appelli generici per una trasformazione della nostra società. Ma anche questo era ben lontano dalle ironiche, oblique, mordenti affermazioni che usava fare nei primi mesi della sua permanenza. Sembrava che la sua capacità di combinare guai fosse enormemente aumentata; adesso si rendeva conto di poter suscitare perturbazioni assai più vaste rivolgendosi alle folle per la strada che spassandosela a spese di qualche individuo. Kralick pareva conscio di ciò quanto me; non capivo perché permetteva che il giro continuasse, perché lasciava che Vornan avesse accesso ai canali delle comunicazioni. Sembrava incapace di arrestare il corso degli eventi, d’interrompere la rivoluzione che lui stesso aveva contribuito a lanciare.
Non sapevamo nulla dei veri moventi di Vornan. Il secondo giorno a Buenos Aires si avventurò di nuovo tra la folla. Questa volta una massa ancora più cospicua del giorno innanzi, e con una sorta di ostinata insistenza circondò Vornan, cercando disperatamente di raggiungerlo e di toccarlo. Dovemmo tirarlo fuori, alla fine, con una sonda calata da un elicottero. Era pallido e scosso, mentre si liberava dello scudo. Non avevo mai visto Vornan sconvolto, ma quell’orda c’era riuscita. Guardò lo scudo con aria scettica e disse: «Forse c’è qualche pericolo. Fino a che punto posso fidarmi di questo arnese?»
Kralick gli assicurò che era dotato di circuiti d’emergenza che lo rendevano assolutamente infallibile. Vornan sembrava dubbioso. Si girò dall’altra parte, cercando di ricomporsi; era davvero consolante vedere in lui i sintomi della paura. Non potevo biasimarlo se temeva quella folla, anche con lo scudo.
Volammo da Buenos Aires a Rio de Janeiro nelle prime ore del 19 novembre. Io cercavo di dormire, ma Kralick venne nel mio scompartimento e mi svegliò. Dietro di lui c’era Vornan. Kralick aveva in mano il sottile avvolgimento d’uno scudo antifolla.