«La legge dell’accumulazione della catastrofe,» disse Jack. «L’elettricità statica finisce per produrre la scarica. Pensa a tutte le piccole guerre: Corea, Vietnam, Medio Oriente, Africa Meridionale, Indonesia…»
«Mongolia e Paraguay,» aggiunse Shirley.
«Sì. In media, c’è una piccola guerra ogni sette, otto anni. Ognuna crea sequenze di reazione che contribuiscono a motivare la guerra successiva, perché tutti sono ansiosi di tradurre in pratica la lezione appresa con l’ultima guerra. Si accumula così un’intensità crescente che prima o poi esploderà nella Guerra Finale Che comincerà e finirà il primo gennaio del duemila.»
«E tu ci credi?» domandai.
«Io? Non proprio,» disse Jack. «Mi limito semplicemente ad esporre la teoria. Non vedo segni di una catastrofe imminente nel mondo, anche se devo ammettere di sapere soltanto quello che apprendo attraverso la televisione. Comunque, gli Apocalittici colpiscono l’immaginazione. Shirley, ci fai vedere le registrazioni dei disordini di Chicago, ti dispiace?»
Shirley inserì una capsula. L’intera parete di fondo della stanza si accese di colori, all’inizio del playback della trasmissione televisiva. Vidi i grattacieli di Lake Shore Drive e di Michigan Boulevard; vidi figure bizzarre che invadevano la superstrada, si riversavano sulla spiaggia, caprioleggiavano in riva al lago gelido. Quasi tutte erano dipinte a strisce sgargianti, come pagliacci in libertà. Moltissimi erano seminudi, e non era la nudità innocente e naturale di Jack e Shirley in una giornata caldissima, era qualcosa di brutto e rozzo e volutamente osceno, un’ostentazione turpe di seni penzolanti e di natiche dipinte. Era uno spettacolo ideato per sconvolgere: le figure grottesche di Hieronymus Bosch scatenate, che sciorinavano la loro nudità in faccia ad un mondo condannato. Non avevo fatto molto caso a quel movimento, prima. Rimasi sbalordito nel vedere una ragazza appena adolescente pre cipitarsi davanti alla telecamera, piroettare, alzarsi la gonna, accoccolarsi ed orinare in faccia ad un altro sgavazzatore che era crollato in uno stato stuporoso. Guardai le fornicazioni sfacciate, i grovigli grotteschi di corpi, i complessi accoppiamenti che erano, più esattamente, triplicamenti e quadruplicamenti. Una donna spaventosamente grassa avanzava sulla spiaggia, applaudendo i più giovani ed incitandoli a continuare. Una montagna di suppellettili prese fuoco. I poliziotti, sbigottiti, irroravano la folla di schiuma, ma non vi si avventuravano.
«L’anarchia si è scatenata nel mondo,» borbottai. «Da quanto tempo dura tutto questo?»
«Da luglio, Leo,» rispose Shirley, sottovoce. «Tu non lo sapevi?»
«Ho avuto molto da fare.»
Jack disse: «È un fenomeno nettamente in crescendo. All’inizio era un movimento di fanatici eccentrici nel Midwest, nel ’93, ’94… un migliaio di aderenti o giù di lì, convinti che era loro dovere pregare perché al Giorno del Giudizio mancava ormai meno di un decennio. Poi si fecero prendere dalla smania di far proseliti e cominciarono a predicare la fine del mondo, ma questa volta il loro messaggio attecchì. Ed il movimento sfuggì loro di mano. Durante gli ultimi sei mesi si è diffusa la convinzione che sarebbe una stupidaggine sprecarsi a fare qualunque cosa che non sia spassarsela, perché ormai non è rimasto più molto tempo.»
Rabbrividii. «Pazzia universale?»
«Proprio così. In tutti i continenti dilaga la convinzione profonda che le bombe cadranno il primo gennaio dell’anno prossimo. Mangia, bevi e stai allegro… Il contagio si diffonde. Preferisco non pensare a quali livelli arriverà l’isteria collettiva fra un anno, durante la settimana precedente la presunta fine del mondo. Può darsi che noi tre saremo gli unici superstiti, Leo.»
Continuai a fissare lo schermo ancora per qualche istante, sgomento.
«Spegnete quel coso,» dissi alla fine.
Shirley ridacchiò. «Com’è possibile che tu non ne avessi sentito parlare, Leo?»
«Ho perduto il contatto con la realtà.» Lo schermo si oscurò. I dèmoni dipinti di Chicago saltavano ancora oscenamente nel mio cervello. Il mondo sta impazzendo, pensai, ed io non me ne sono neppure accorto. Shirley e Jack si avvidero che la rivelazione dell’apocalisse degli Apocalittici mi aveva sconvolto, e cambiarono abilmente argomento, parlando delle antiche rovine indiane che avevano scoperto nel deserto, a pochi chilometri di distanza. Molto prima di mezzanotte lasciai capire che ero stanco e mi mandarono a letto. Shirley tornò in camera mia per qualche minuto, più tardi; si era spogliata, ed il suo corpo nudo splendeva sulla soglia come una candela festiva.
«Hai bisogno di qualcosa, Leo?»
«No, grazie,» risposi.
«Buon Natale, caro. Oppure hai dimenticato anche questo? Domani è Natale.»
«Buon Natale, Shirley.»
Le mandai un bacio, e lei spense la luce. Mentre io dormivo, Vornan-19 entrò nel nostro mondo a diecimila chilometri di distanza, e niente, per noi, avrebbe più potuto continuare ad essere come prima: mai più.
III
La mattina di Natale mi svegliai tardi. Jack e Shirley dovevano essere alzati da parecchio. Avevo in bocca un gusto amaro, e non volevo compagnia, neppure la loro; com’era mio privilegio, andai in cucina e, in silenzio, mi programmai la colazione. Loro intuirono il mio malumore e mi girarono al largo. Il succo d’arancia e il toast uscirono dal pannello dell’autochef. Li divorai, poi premetti i tasti per ordinare un caffè senza panna, quindi scaricai i piatti nella lavatrice, attivai il ciclo ed uscii. Camminai da solo per tre ore. Quando ritornai, mi sentivo purificato. Era una giornata troppo fresca per prendere il Sole o per darsi al giardinaggio. Shirley mi mostrò alcune delle sue sculture, Jack mi lesse qualche sua poesia, ed io parlai, esitando, dell’ostacolo che bloccava il mio lavoro. Quella sera cenammo splendidamente: tacchino arrosto e Chablis ghiacciato.
I giorni che seguirono furono rasserenanti. I miei nervi si distesero. Qualche volta facevo passeggiate da solo nel deserto; qualche volta Jack e Shirley mi accompagnavano. Mi portarono a visitare le loro rovine indiane. Jack s’inginocchiò per mostrarmi i frammenti di vasellame nella sabbia: cunei triangolari di ceramica bianca ornati di strisce e di punti neri. M’indicò i contorni ribassati di un’abitazione scavata nel terreno; mi mostrò le fondamenta frammentarie di un edificio fatto di rozza pietra cementata con l’argilla.
«È roba costruita dai Papago?» chiesi io.
«Ne dubito. Sto ancora controllando, ma sono sicuro che sia troppo evoluta per i Papago. Secondo me qui c’era un’antica colonia di Hopi, diciamo un migliaio di anni fa, arrivati da Kayenta. Shirley ha promesso che mi porterà qualche bobina di archeologia la prima volta che andrà a Tucson. La biblioteca dei dati non possiede i testi veramente approfonditi.»
«Potresti richiederli,» dissi io. «Non dovrebbe essere difficile ottenere che la biblioteca di Tucson trasferisca i facsimili alla centrale del datafono e li faccia trasmettere a te. E se a Tucson i testi non ci sono, possono procurarseli a Los Angeles. La rete di trasmissione dei dati è basata sull’idea che chiunque possa avere a domicilio quello di cui ha bisogno, e subito, quando…»
«Lo so,» disse gentilmente Jack. «Ma non vorrei sollevare un polverone. Altrimenti, prima di rendermene conto, potrei trovarmi qui una squadra di archeologi. Ci procureremo i testi nel modo antiquato, andando in biblioteca.»
«Da quanto tempo conosci l’esistenza di questo posto?»
«Un anno,» disse lui. «Non c’è fretta.»
Gli invidiai quella libertà sottratta ad ogni sollecitazione normale. Com’erano riusciti, quei due, a crearsi una vita nel deserto? Per un attimo, preso dalla gelosia, mi augurai che fosse possibile per me fare altrettanto. Ma non avrei potuto restare sempre con loro, anche se magari non avrebbero obiettato, e l’idea di vivere in solitudine in qualche altro angolo del deserto non mi affascinava. No. Il mio posto era all’Università. Finché avevo il privilegio di rifugiarmi dai Bryant quando se ne presentava la necessità, potevo cercare consolazione nel mio lavoro. E a quel pensiero provai un guizzo di gioia: ero lì da due giorni soltanto, e cominciavo a pensare di nuovo con interesse al mio lavoro!