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Il tempo passava tranquillo. Celebrammo l’arrivo del 1999 con una festicciola, ed io mi presi una leggera sbronza. La mia tensione si placava. Un’esplosione improvvisa di calore estivo investì il deserto durante la prima settimana di gennaio, e noi ci sdraiammo nudi al Sole, spensierati e felici. Un cactus a fioritura invernale produsse nel loro giardino una cascata di boccioli gialli e da chissà dove arrivarono le api. Lasciai che un grosso calabrone peloso, con le zampe cariche di polline, mi atterrasse sul braccio e non cercai neppure di scacciarlo. Dopo un momento volò da Shirley ed esplorò la calda valletta tra i suoi seni. Poi scomparve. Ridemmo. Chi poteva aver paura di un calabrone così grosso?

Erano trascorsi ormai dieci anni da quando Jack aveva abbandonato l’Università e aveva condotto Shirley nel deserto. L’anno nuovo portò le solite riflessioni sul passare del tempo, e noi dovemmo ammettere che eravamo cambiati pochissimo. Sembrava che una specie di stasi fosse scesa su di noi verso la fine degli Anni Ottanta. Sebbene io avessi passato la cinquantina, avevo l’aspetto e la salute di un uomo molto più giovane: avevo ancora i capelli neri e il volto senza rughe. Ne ero soddisfatto, ma avevo pagato un prezzo salato per la mia conservazione: la prima settimana del 1999 non ero molto più avanti, nel mio lavoro, di quanto fossi stato nella prima settimana del 1989. Cercavo ancora il modo di confermare la mia teoria, secondo la quale il flusso del tempo è bidirezionale e che, almeno al livello subatomico, può venire invertito. Per un intero decennio mi ero mosso in un circolo vizioso, senza approdare a nulla, mentre la mia fama cresceva ed il mio nome figurava spesso tra quelli dei candidati al Nobel. Io la chiamo la Legge di Garfield: quando un fisico teorico diventa un personaggio famoso, vuol dire che nella sua carriera qualcosa è andato storto. Per i giornalisti ero un affascinante stregone che un giorno o l’altro avrebbe donato al mondo la macchina del tempo; per me stesso ero un fallito, prigioniero in un labirinto di deviazioni.

Quei dieci anni avevano spruzzato di grigio le tempie di Jack, ma per il resto la metamorfosi apportata dal tempo, per lui, era stata positiva. Era più muscoloso; un uomo robusto che aveva perduto il pallore di chi sta troppo al chiuso. Il suo corpo irradiava energia, e si muoveva con una disinvolta eleganza che smentiva la goffaggine di un tempo. La lunga esposizione al Sole aveva scurito la sua pelle. Sembrava possente e sicuro di sé, mentre un tempo appariva cauto e incerto.

Shirley aveva guadagnato più di tutti. In lei i cambiamenti erano lievi, ma tutti positivi. La ricordavo magra, con l’aria della puledrina, troppo pronta a ridacchiare, troppo sottile di cosce per la pienezza dei seni. Gli anni avevano corretto quelle leggere pecche. Adesso il suo corpo dall’abbronzatura aurea era magnificamente proporzionato, e questo la faceva sembrare meno nuda, quando non aveva niente addosso, perché era come un’Afrodite di Fidia che si aggirasse sotto il Sole dell’Arizona. Aveva acquistato cinque chili dai tempi della California, sì, ma ogni grammo era collocato perfettamente. Era impeccabile e, come Jack, aveva acquisito quella profonda riserva di energia, quella sicurezza totale che la guidava in ogni movimento e in ogni parola. La sua bellezza stava ancora maturando. Fra due o tre anni sarebbe diventata abbagliante. Preferivo non pensare come sarebbe stata un giorno, rugosa e rattrappita. Era difficile immaginare che quei due, lei soprattutto, fossero soggetti alla stessa dura condanna che pende sull’esistenza di noi tutti.

Stare con loro era una gioia. Durante la seconda settimana del mio soggiorno, mi sentivo abbastanza a posto per discutere dettagliatamente con Jack i problemi del mio lavoro. Lui mi ascoltò con molta comprensione, seguendomi con un certo sforzo, ma senza troppo interesse. Ma era vero? Possibile che una mente magnifica come la sua avesse perduto così completamente il contatto con la fisica? Comunque mi ascoltava, e questo mi faceva bene. Brancolavo nel buio; avevo l’impressione di essere più lontano dalla meta di quanto lo fossi stato cinque od otto anni prima. Avevo bisogno di un ascoltatore, e lo trovai in Jack.

La difficoltà consisteva nell’annientamento dell’antimateria. Se si porta un elettrone indietro nel tempo, cambia carica; diventa un positrone e cerca immediatamente l’antiparticella. Trovarla è perire. Un miliardesimo di secondo, ed ecco la minuscola esplosione, e si libera un fotone. Potevamo mantenere la nostra spinta d’inversione temporale soltanto rimandando la nostra particella in un universo privo di materia.

Anche se avessimo trovato l’energia sufficiente per lanciare particelle più grandi — protoni e neutroni e persino alpha — a ritroso nel tempo, saremmo finiti egualmente nella stessa trappola. Tutto ciò che mandavamo nel passato veniva annientato così rapidamente da apparire come un fulmineo microevento sul nostro oscilloscopio. Nonostante quello che dicevano alla televisione, non c’era possibilità di realizzare veramente il viaggio nel tempo: un uomo inviato nel passato sarebbe stato una superbomba, presumendo che un essere vivente sopravvivesse alla transizione in antimateria. Poiché questa parte della nostra teoria sembrava incontestabile, avevamo incominciato ad esplorare la nozione di un universo privo di materia, cercando qualche sacca di nulla in cui potessimo infilare il nostro viaggiatore, capace di contenerlo mentre noi lo sorvegliavamo. Ma questo ci era impossibile.

Jack chiese: «Vuoi aprire un universo sintetico?»

«In sostanza, sì.»

«Potete riuscirci?»

«Teoricamente possiamo farlo. Sulla carta. Creiamo uno schema di tensione che spezza la muraglia del continuum. Poi spingiamo attraverso la falla il nostro elettrone che si muove a ritroso nel tempo.»

«E come potete seguirlo?»

«Non possiamo,» dissi io. «Ed è questo che ci blocca.»

«Certo,» mormorò Jack «Quando introduci un’altra cosa, anche un solo elettrone, in quell’universo, non è più privo di materia, e provochi l’annientamento che non desideri. Quindi, non hai la possibilità di osservare il tuo esperimento.»

«Chiamalo il Principio d’Indeterminazione di Garfield,» dissi io con un filo di voce. «L’atto di osservare l’esperimento lo rovina immediatamente. Capisci perché siamo incastrati?»

«Avete fatto qualche tentativo per aprire questo vostro universo adiacente?»

«Non ancora. Non vogliamo causare spese inutili, fino a quando non saremo sicuri di poter concludere qualcosa. Per la verità, abbiamo anche qualche altro controllo da compiere, prima che osiamo tentarlo. È meglio non iniziare a spalancare lo spaziotempo senza aver provato in anticipo una simulazione di tutte le conseguenze possibili.»

Jack mi venne vicino e mi diede un pugno scherzoso sulla spalla. «Leo, Leo, Leo, non ti capita mai di augurarti di essere diventato un barbiere, anziché un fisico?»

«No, ma ci sono certe volte in cui vorrei che la fisica fosse un po’ più semplice.»

«Allora forse sarebbe stato meglio se avessi fatto il barbiere.»

Scoppiammo a ridere. Andammo insieme alla terrazza, dove Shirley stava sdraiata a leggere. Era un luminoso pomeriggio di gennaio, e il cielo era d’un azzurro metallico: grandi strati di nubi aleggiavano sulle vette delle montagne, ed il Sole era grande e caldo. Mi sentivo perfettamente a mio agio. Nelle due settimane trascorse dal mio arrivo ero riuscito ad esteriorizzare il problema del mio lavoro, e adesso quasi mi sembrava che appartenesse a qualcun altro. Se fossi riuscito a distaccarmene a sufficienza, forse avrei potuto trovare un sistema nuovo ed ardito di abbattere gli ostacoli, quando fossi ritornato ad Irvine.