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«Non mettere in moto i tuoi razzi a meno che non te lo dica io. Non dobbiamo acquistare velocità eccessiva, e dobbiamo stare attenti a non aggrovigliare i nostri due fili.»

«Va bene» disse Gibson, vagamente seccato di quell’intrusione nel suo sacrario privato. Si voltò a guardare la nave: era già a varie centinaia di metri di distanza, e stava rapidamente rimpicciolendo.

«Quanto cavo abbiamo a disposizione?» chiese con ansia. Ma non ebbe risposta e per un attimo fu colto da un lieve panico, poi si ricordò che doveva premere il pulsante di trasmissione.

«Un chilometro circa» fu la risposta di Bradley non appena Gibson ebbe ripetuto la domanda. «È più che sufficiente per godersi in santa pace un po’ di solitudine.»

«E se dovesse spezzarsi?» chiese Gibson in tono scherzoso, ma con una certa apprensione segreta.

«Non è possibile. Sopporterebbe tutto il tuo peso normale anche sulla Terra. E in ogni caso potremmo rientrare ugualmente grazie ai nostri razzi.»

«E se questi si esaurissero?»

«In tal caso non ti resterebbe che girare il commutatore dell’SOS e aspettare che qualcuno venga a prenderti. Ma dubito che in una simile circostanza si affretterebbero molto, perché chi fosse tanto stupido da cacciarsi in un guaio del genere non potrebbe certo pretendere molta comprensione.»

Ci fu uno strappo improvviso: erano arrivati alla fine del cavo. Bradley attutì il contraccolpo con i suoi razzi.

«Siamo parecchio lontani da casa, adesso» disse con la massima tranquillità.

A Gibson occorsero diversi secondi per individuare l’Ares. Si trovavano sul lato notturno dell’astronave e questa appariva quasi completamente in ombra: le sue sfere erano divenute due sottili mezzelune che avrebbero potuto benissimo essere scambiate per la Terra e la Luna viste da un milione di chilometri di distanza. La nave era adesso troppo piccola e fragile per poter essere ancora considerata un rifugio sicuro. Gibson era finalmente solo con le stelle. Le stelle erano così splendenti e così numerose che a tutta prima Gibson non riuscì a riconoscere nemmeno la costellazione più familiare. Ma ben presto individuò Marte, il corpo più luminoso nel cielo, dopo il Sole naturalmente, e riuscì a determinare il piano dell’eclittica. Adagio adagio, manovrando con estrema precauzione gli scoppi dei razzi a gas, si girò in maniera da avere grosso modo la testa verso la Stella Polare. Ecco che così era tornato diritto, a piedi in giù e testa in sù, e il disegno delle stelle era di nuovo facilmente riconoscibile.

Lentamente si fece strada verso lo Zodiaco, chiedendosi con meravigliato stupore quanti uomini nella storia avessero condiviso quella sua esperienza magica. Non era più possibile distinguere i pianeti dalle stelle a luce fissa, priva di qualsiasi tremolio, che rappresentava un riferimento tanto utile, anche se a volte assai pericoloso, per gli astronomi dilettanti. Gibson non tentò nemmeno di cercare la Terra o Venere, perché il bagliore del Sole l’avrebbe immediatamente folgorato se avesse osato volgere lo sguardo in quella direzione.

Gibson stava cercando Alpha del Centauro in mezzo alle costellazioni ignote dell’emisfero meridionale, quando vide qualcosa che per un attimo non riuscì a identificare. A una distanza incalcolabile un oggetto bianco, rettangolare, galleggiava sullo sfondo delle stelle. Questa almeno fu la sua prima impressione, ma quasi subito capì che il suo senso della prospettiva era sbagliato e che in realtà quello che vedeva era molto piccolo e si trovava a pochi metri da lui. Ma anche così gli ci volle un po’ di tempo per riconoscere quell’oggetto interplanetario per quello che era realmente: un normalissimo foglio di carta dattiloscritto che si rigirava lentissimamente nello spazio. Niente poteva essere più banale, e più inatteso.

Stupito, Gibson guardò a lungo l’oggetto prima di convincersi di non essere vittima di un’illusione ottica. Poi accese la trasmittente e si mise in comunicazione con Bradley.

L’altro non si mostrò affatto sorpreso.

«Cosa c’è di strano?» disse con una punta d’impazienza. «Sono settimane che gettiamo i nostri rifiuti e poiché non imprimiamo nessuna accelerazione è naturale che qualcosa continui a galleggiarci intorno. Non appena cominceremo a frenare, ce ne staccheremo subito, e la nostra spazzatura se ne andrà sfrecciando fuori dal sistema solare.»

Certo, com’era semplice!

Per millenni dopo la sua morte, quel pezzo di carta avrebbe continuato a portare il proprio messaggio alle stelle, mentre lui ne avrebbe per sempre ignorato il contenuto…

Norden andò a riceverlo al compartimento stagno. Sembrava alquanto soddisfatto di sé, ma Gibson non era in condizioni di notare questo particolare. Era ancora sperduto tra le stelle e gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo prima di ritornare alla normalità.

«Ce l’avete fatta?» chiese Bradley agli altri, non appena Gibson fu lontano.

«Sì, e con quindici minuti di vantaggio. Abbiamo chiuso i ventilatori e abbiamo scoperto il foro con il sistema antidiluviano ma sempre efficace del fumo di candela. Una bella saldatura e un po’ di vernice ad asciugatura rapida hanno compiuto il resto: in quanto allo scafo esterno lo tureremo quando saremo in cantiere, se proprio sarà necessario. Mac ha fatto proprio un bel lavoro.»

6

Il viaggio, ormai alle ultime settimane, era caratterizzato da un senso inevitabile di noia per il diminuito interesse che si sarebbe riacceso soltanto quando fossero entrati nell’orbita di Marte.

L’ultima avventura, per Gibson, era stato il momento in cui aveva definitivamente perso di vista la Terra. Di giorno in giorno si era andata avvicinando sempre più alle smisurate ali perlacee della corona, quasi si preparasse a immolare i suoi miliardi di esseri sulla pira funeraria del Sole. Una sera era apparsa ancora visibile al telescopio, simile a una minuscola favilla in lotta coraggiosa con lo splendore abbagliante entro cui era destinata a scomparire. Gibson aveva pensato che forse sarebbe stata ancora visibile il mattino seguente, ma durante la notte chissà quale colossale esplosione aveva gettato la corona mezzo milione di chilometri più in là nello spazio, e la Terra si era perduta sullo sfondo della cortina incandescente. Doveva trascorrere una settimana prima di vederla riapparire, e in quel breve tempo il mondo di Gibson si sarebbe trasformato così profondamente come sarebbe stato difficile prevedere.

Quando Gibson aveva cominciato a interessarsi seriamente di astronautica, Jimmy se l’era trovato davanti puntualmente un paio di volte la settimana, e aveva cercato allora di valutarlo, impresa tutt’altro che tacile, perché Gibson non era mai lo stesso per molto tempo di seguito. C’erano momenti in cui era riguardoso e attento, e in genere estremamente socievole, ma ce n’erano altri in cui si dimostrava talmente di cattivo umore e distratto che veniva spontaneo definirlo l’uomo più intrattabile dell’astronave.

Per quanto lo riguardava, Jimmy non era affatto sicuro dell’opinione di Gibson su di lui. A volte aveva la sgradevole sensazione che lo scrittore lo considerasse unicamente come materiale grezzo che un giorno forse avrebbe potuto acquistare qualche valore.

Una cosa che sorprendeva in Gibson era la sua solida preparazione tecnica. Quando Jimmy aveva iniziato i suoi corsi serali, come tutti a bordo li chiamavano, si era immaginato che Gibson fosse semplicemente preoccupato di evitare di commettere errori pacchiani negli articoli che radiodiffondeva alla Terra, ma che non nutrisse affatto un vero e profondo interesse per l’astronautica in sé. Ma ben presto si accorse che non era affatto così. Gibson dimostrava un desiderio quasi commovente di dominare branche della scienza così poco comuni, e chiedeva dimostrazioni matematiche che a volte mettevano in imbarazzo Jimmy. Il giornalista possedeva un bagaglio rilevante di cognizioni tecniche, frutto dei suoi studi giovanili. Si era certamente prodotto in dilettanteschi tentativi di affrontare teorie scientifiche un po’ troppo avanzate per lui, e questo gli aveva dato una infarinatura su alcuni problemi, più tipica dei curiosi che dei competenti.