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«Benissimo» rispose Gibson sorridendo. «Credo di aver rotto una mezza dozzina di oggetti per la pessima abitudine presa a bordo dell’Ares di lasciarli sospesi a mezz’aria, ma piano piano mi sto riabituando a vivere in un mondo dotato di gravità.»

«E che cosa pensate della nostra piccola città?»

«Mi sembra che rappresenti uno sforzo straordinario. Non so come abbiate fatto a realizzare tanto in così poco tempo.»

Hadfield lo stava osservando attentamente.

«Siate del tutto schietto: è più piccola di quello che immaginavate, non è vero?»

Gibson esitò un attimo prima di rispondere.

«Ecco, per essere completamente sincero, sì… ma dovete pensare che io sono abituato a metropoli come Londra e New York! Dopotutto, anche sulla Terra duemila persone formerebbero soltanto un piccolo paese. Inoltre la maggior parte di Porto Lowell si trova sottoterra, e anche questo contribuisce a non averne immediatamente la dimensione esatta.»

Il presidente non mostrò né sorpresa né dispetto.

«Tutti provano una delusione quando arrivano qui» disse. «Però tra una settimana la nostra città tascabile crescerà di parecchio grazie alla nuova cupola che stiamo costruendo. Ma ditemi, quali sono i vostri progetti, adesso che siete qua? Probabilmente sapete che io non ero favorevole alla vostra venuta.»

«Così mi hanno detto sulla Terra» balbettò Gibson, colto alla sprovvista. Avrebbe scoperto presto che la sincerità era una delle principali virtù del Capo Supremo marziano, una qualità che non lo rendeva certo simpatico a molta gente. «Temevate che vi avrei dato fastidio?»

«Sì. Ma adesso che siete qui faremo quello che potremo per voi. E mi auguro che voi farete altrettanto per noi.»

«In che senso?» chiese Gibson mettendosi sulla difensiva.

Hadfield si protese in avanti intrecciando le mani in un gesto febbrile.

«Siamo in guerra, signor Gibson. Siamo in guerra con Marte e con tutte le sue forze ostili: il freddo, la mancanza d’acqua, la mancanza d’aria. E siamo in guerra con la Terra. Una guerra burocratica, si capisce, ma che ha ugualmente le sue vittorie e le sue sconfitte. Sto combattendo una campagna a un capo di una linea di rifornimento lunga, come sapete, cinquanta milioni di chilometri. I generi più urgenti impiegano almeno cinque mesi ad arrivare, e io li ricevo solo se sulla Terra hanno deciso che proprio non posso arrangiarmi altrimenti. Certamente sapete per che cosa lotto, e che il mio scopo principale è l’indipendenza economica. Ricorderete che la prima spedizione dovette portare con sé tutto. Ebbene, oggi possiamo provvedere alle necessità basilari dell’esistenza grazie alle nostre sole risorse, ma esistono strumenti particolarmente complessi, che soltanto la Terra può fornirci, e finché la nostra popolazione non sarà aumentata di almeno dieci volte, in questo campo potremo fare ben poco. Tutti, su Marte, sono specializzati in qualcosa, ma certo esistono più mestieri sulla Terra che abitanti su questo pianeta, e voi mi insegnate che con l’aritmetica non si discute. Vedete questi grafici? Li ho cominciati cinque anni fa. Mostrano il nostro indice di produzione per alcuni materiali di prima necessità. Abbiamo raggiunto un livello di autosufficienza che ci rende indipendenti al cinquanta per cento. Spero che tra altri cinque anni saranno poche le cose che dovremo ancora importare dalla Terra. Ma la nostra necessità impellente rimane la mano d’opera, ed è in questo che forse voi potete aiutarci.»

Gibson si sentiva alquanto a disagio.

«Non posso fare nessuna promessa» disse. «Non dimenticate per favore che io qui sono un semplice giornalista. Sentimentalmente sono con voi ma la situazione obiettiva è diversa.»

«Apprezzo la vostra schiettezza. I fatti però non sono tutto. Mi auguro che vorrete spiegare alla Terra più quello che ci proponiamo di realizzare che i risultati già raggiunti. I progetti sono molto più importanti, ma potremo realizzarli soltanto se la Terra ci darà il suo appoggio. Purtroppo non tutti quelli che vi hanno preceduto se ne sono resi conto.»

Era verissimo, rifletté Gibson. Ricordava perfettamente tutta una serie di articoli comparsi sul Daily Telegraph un anno prima. I fatti erano stati riportati con esattezza scrupolosa, ma un resoconto analogo sulle imprese dei primi colonizzatori del Nord America durante il loro primo quinquennio nel Nuovo Mondo sarebbe stato altrettanto scoraggiante.

«Credo di capire i due aspetti del problema» disse Gibson. «Voi dovete rendervi conto che dal punto di vista terrestre Marte è molto lontano, costa un sacco di quattrini, e non offre niente in cambio. Il primo interesse per le esplorazioni interplanetarie si è calmato, e adesso la gente si chiede: "Noi cosa ci guadagniamo da tutto questo?". Per ora la risposta è stata una sola: "Poco". Io sono più che convinto che la vostra opera è estremamente importante, ma nel mio caso si tratta più di un atto di fede che di una questione logica. Molto probabilmente l’uomo medio terrestre pensa che qui si stanno spendendo miliardi che potrebbero essere impiegati meglio a migliorare il pianeta d’origine, ammesso che l’uomo medio pensi a queste cose, voglio dire.»

«Comprendo le vostre difficoltà, ma non è facile trovare una soluzione. Ecco, cercherò di spiegarmi più chiaramente. Immagino che tutte le persone intelligenti riconoscerebbero l’importanza di una base scientifica su Marte, che si dedicasse puramente a lavori di ricerca e di indagine, non è esalto?»

«Indubbiamente»

«Eppure queste stesse persone intelligenti non riuscirebbero mai a capire lo scopo di creare quassù una base autosufficiente che potrebbe diventare col tempo una civiltà indipendente!»

«È appunto questo il guaio. Non credono che sia possibile, oppure, anche ammessane l’eventualità, la ritengono un’esperienza inutile. Si leggono spesso articoli nei quali si dice che Marte sarà sempre una palla al piede, per via delle spaventose difficoltà naturali nelle quali si è costretti a operare.»

«Non vi sembra che ci sia qualche analogia tra Marte e le prime colonie americane?»

«Il paragone non è molto calzante. Dopo tutto, quando arrivarono in America i lontani pionieri vi trovarono aria che potevano respirare e cibo che potevano mangiare!»

«Questo è vero, ma anche se il problema della colonizzazione di Marte è infinitamente più complesso, non bisogna dimenticare che oggi abbiamo a nostra disposizione forze infinitamente maggiori di allora. Purché ci sia concesso tempo e materiali, possiamo fare di questo mondo un paese facile e comodo da abitare quanto la Terra. Già adesso non sono molti coloro che desiderano tornare indietro, perché capiscono l’importanza di quello che stanno creando. Forse la Terra oggi non ha ancora bisogno di Marte, ma un giorno ne avrà.»

«Vorrei potervi credere» disse Gibson senza molta convinzione. E indicò la lussureggiante distesa verde che lambiva come un oceano affamato la cupola pressoché invisibile della città, la sterminata pianura che fuggiva con tanta rapidità oltre il limite dell’orizzonte stranamente angusto, l’arco di alture vermiglie nelle cui braccia si adagiava la piccola colonia. «Marte è un mondo interessante, bello anche. Ma non potrà mai essere come la Terra.»

«E perché dovrebbe esserlo? E poi che cosa intendete per Terra, prima di tutto? Intendete forse le pianure del Sud America, i vigneti di Francia, le isole coralline del Pacifico, o le steppe siberiane? Perché Terra è ciascuno di questi luoghi! Ovunque l’uomo riesca a trovare una possibilità di esistenza, là è la sua terra. Ebbene, presto o tardi gli uomini saranno in grado di vivere su Marte senza bisogno di tutta questa roba.» E con ampio gesto indicò la cupola che racchiudeva la città e le dava vita.

«Credete davvero che gli uomini riusciranno ad adattarsi all’atmosfera esterna?» disse Gibson. «Ma se vi riuscissero non resterebbero più tali per molto tempo: si trasformerebbero radicalmente!»